Ho incontrato per la prima volta Liliana Segre nelle pagine del libro Sopravvissuta ad Auschwitz (Edizioni Paoline) di Emanuela Zuccalà. La presentazione era del cardinale Carlo Maria Martini. Fui colpita dalla commozione e dall’affetto delle parole di quest’ultimo che sottolineavano l’assenza di odio, l’amore per la vita, la capacità di cogliere segni di vita anche in luoghi di morte, di una persona che aveva attraversato l’inferno. Avrei saputo, in seguito, che fra loro si era consolidato un rapporto speciale fino alla scomparsa del cardinale, che volle salutarla negli ultimi giorni di malattia, quando non poteva più parlare, per donarle un bellissimo volume.
Il libro della Zuccalà, una testimonianza in prima persona di Liliana Segre per gli studenti delle scuole che incontrava, mi coinvolse fortemente. Era come una lama che feriva le carni, ma nel buio del dolore c’erano spiragli di luce, una volontà indomita di sopravvivere, una resistenza al male assoluto che sorprendeva.
D’impulso le telefonai. Mi rispose con la cordialità di una persona che ti aspettava. E, sentendo che arrivavo da Torino, m’invitò a pranzo. Accettai, con un po’ d’imbarazzo. Ma quando mi accolse nella sua casa milanese, luminosa e fiorita di piante, un’atmosfera familiare, fui subito a mio agio. Si stava bene in quel salotto, custodito dalle tante fotografie dei familiari, di quel papà con il quale scese per mano dal vagone piombato sulla spianata di Auschwitz e di cui mi disse: «È stato l’uomo più importante della mia vita. Ho ricevuto da lui tanto amore e gli ho donato tanto amore che mi è bastato per cercare la vita in ogni momento. Mi ha dato insegnamenti di vita e non di morte, di pace e non di vendetta».
Quando la salutai, fu come se ci conoscessimo da sempre. E quella che doveva essere un’intervista, si trasformò nel tempo in un rapporto di esistenze, di comuni sentire, di empatie. Scoprii che Liliana abitava la vita degli altri con quell’accoglienza e intelligenza del cuore, con un’ospitalità gentile ed elegante, che aggiunge vita alla vita.
Nei successivi incontri, spesso conviviali, dove si provava il piacere dello stare insieme nel condividere i semplici gesti della quotidianità, imparai che la sua dichiarata normalità («io sono una persona comune, sono una nonna con una vita piena d’interessi»), si trasformava di continuo nella eccezionalità dell’affrontare le piccole e grandi realtà della vita, private e pubbliche, con la medesima disponibilità e calda umanità, autenticità e fedeltà ai propri principi. Nel partecipare a quanto accade vicino e lontano, in comunione con i destini degli uomini e delle donne che una mano misteriosa ha scritto da qualche parte.
Da quando ha deciso di scendere in campo per portare la sua testimonianza, l’ho sempre vista mettersi in gioco in prima persona, per assolvere non solo un «debito morale» verso «gli scomparsi nel nulla», ma per celebrare la sacralità di un impegno a difesa del dono della vita e della sua bellezza.
Ci siamo spesso ritrovate a parlare delle derive dei nostri tempi, della perdita di memoria delle assurdità e della banalità del male, in particolare dell’indifferenza dilagante. Al proposito Liliana mi ha consegnato un’immagine che spesso mi ritorna in mente e che ritengo particolarmente efficace: «È come quella nebbia che invade la Pianura padana e di colpo, in una giornata serena, sull’autostrada, ti avvolge e tu perdi la cognizione del tempo e dello spazio, non sai più a quale stazione devi uscire. Oggi siamo immersi in una nebbia assoluta che ci fa dubitare di qualsiasi cosa e teoria, del vicino di casa, delle parole che stiamo dicendo. Tante situazioni negative di oggi sono frutto di questa indifferenza che ha reso tutto uguale, il bello e il brutto, il chiaro e l’oscuro. Il non credere più in niente è diventato un credo».