L’ultima volta che gli era arrivata
una chiamata così Ettore Messina
aveva 33 anni e la Nazionale di pallacanestro
era un treno che, magari,
sarebbe passato quella volta sola: «E
infatti» scherza, «mi sono lasciato
condurre al patibolo, saltandoci su
al volo e, ovviamente, ho commesso
errori per inesperienza. Era il dicembre 1992,
Messina allenava la Virtus Bologna, l’Italia era
un Paese scocciato da Tangentopoli e choccato
dalle stragi di mafia, un Ct ragazzino diceva che,
almeno lì, c’era voglia di guardare avanti.
Stavolta, quando il treno dell’Italia per lui
è ripassato, Messina si trovava a New York con
i San Antonio Spurs, la squadra Nba che allena
come vice di Gregory Popovich: geograficamente
dall’altra parte, cestisticamente al centro del
mondo. Ha preso il treno in corsa, per un viaggio
ad alta velocità: «Torneo preolimpico e se
saremo bravi da meritarle le Olimpiadi di Rio».
Aveva sentito soffiare voci sul suo ritorno.
A dispetto della vita vagabonda (ha allenato club in Italia, Spagna, Russia e
Nordamerica, vincendo molto), Messina
è attento alle cose italiane non solo
sportive, anzi è tra i pochi sportivi con
cui è persino più interessante parlar
d’altro, benché di basket, a detta del
mondo intero, sappia tutto: «Sapevo
che si diceva che se avessero bussato
sarebbe stato alla mia porta. Ma era
un se. Quando hanno chiamato ne ho
parlato con mia moglie, non ho consultato
gli amici: ho detto sì in 24 ore».
L’ha fatto sapendo benissimo che
le panchine dell’Italia sono scomode,
piene di “spunciotti” (spine, per i non
emiliani), come direbbe il suo concittadino
d’elezione Francesco Guccini
(Messina siciliano d’origine, veneziano
di formazione, è bolognese d’adozione).
«Da istintivo non ho pensato
un attimo di dire di no: so che il tempo
è poco, che è una scommessa,
per questo ho chiesto una chiamata
a progetto. Se poi andremo davvero a
Rio, valuteremo un dopo».
Ha deciso seguendo un sogno:
«Voglio sfilare dietro la bandiera, dormire
al villaggio, mangiare alla mensa
con campioni da tutto il mondo, respirare
spirito olimpico». Lo dice con
l’aria d’un bimbo che descrive il parco
giochi ideale - lui che fa dei piedi per
terra un abito mentale - smentendo
il luogo comune che vuole gli abitanti
dello sport super professionistico insensibili
al fascino a cinque cerchi.
Al sogno ricorrente di ogni viceallenatore
nel campionato professionistico
del Nordamerica, invece non
vuole dare voce, anche se è stato, nella notte tra il 14 e il 15 febbraio il primo
tecnico europeo a calpestare il parquet Nba al
prestigioso All Star Game: «Non penso
a diventare capo allenatore, ho un contratto
con San Antonio fino al 2017 poi
non so. Non sono un sognatore e poi,
da questo punto di vista, qualunque
cosa accada non dipende da me».
Quando la Federbasket italiana
l’ha voluto per traghettare gli azzurri
fino al Brasile: «Il primo pensiero è
stato ai 18 anni passati, sono incline al
malinconico. Ma ora rispetto ad allora
prima di scattare ho imparato a contare,
non solo fino a uno».
IN CORSA. Un po’ per carattere, un po’
per avere imparato in Nba che 15 giorni
di approfondimento bastano per
impostare un campionato, a Messina
non dispiace che il treno arrivi in corsa:
«I giocatori non faranno in tempo a
stufarsi di me. La fretta ci aiuterà a restare
concentrati, senza macerarci
nella paura dell’esame di maturità
che arriva a luglio, al Preolimpico
di Torino. Poi so bene che il favore con
cui il mio nome è stato accolto durerà finché dureranno i risultati. Poi si farà
all’italiana, come sempre. Ma la vita
mi ha insegnato, anche brutalmente,
che il mondo non finisce con la partita,
che una sconfitta brucia molto ma
è solo un graffio, che vincere soddisfa
ma non risolve l’esistenza. Per fortuna
ci sono bravi allenatori nelle giovanili
capaci di farlo capire ai ragazzi».
Un modo di preservarli dal rischio
che: «Perdere, quando la posta è alta,
li mandi a pezzi come persone. A farti
specchiare la mattina è la certezza
d’aver preteso da te stesso il massimo
e l’aver fatto il possibile per darlo».
La sfida sarà «far sì che gli splendidi
momenti di basket, che l’Italia ha
dimostrato di saper giocare, diventino
concretezza per finalizzare le partite,
senza restare ostaggi della media al
tiro. Ci proveremo. Il biglietto per Rio
passa anche dalla capacità che ciascuno
avrà di stare nel ruolo, che in Nazionale
è diverso rispetto al club: Belinelli,
Bargnani, Gallinari che in Nba
spesso non sono leader qui dovranno
diventarlo, quelli, come Gentile, che in
campionato lo sono, dovranno saper
vestire un ruolo diverso».
Non è automatico che con tre giocatori
Nba si diventi una Nazionale da
Nba, ma un Ct che è stato di qua e di là
forse è quello cui ci si può affidare per
diventarlo (in tempo per Rio).