Da quando sono stato nominato vicario d’Anatolia, ogni giorno mi ritrovo a pormi domande cruciali: “Che cosa vogliamo fare noi cristiani, in Oriente e in Occidente? E quali scelte devo compiere io, qui, come vescovo?”».
Monsignor Paolo Bizzeti, gesuita, biblista, sacerdote carismatico innamorato della Turchia da quarant’anni – una terra a cui ha dedicato studi, libri, pellegrinaggi –, quando forse non ci pensava più fu scelto da papa Francesco per guidare questa diocesi vastissima che va dal Mar Nero al Mediterraneo, ai confini con la Siria, l’Iraq, l’Iran. Era il 2015 e il posto che padre Paolo si preparava a occupare era stato lasciato tragicamente vuoto, cinque anni prima, da monsignor Luigi Padovese, assassinato nel cortile in parrocchia dal suo autista, al grido di Allahu Akbar (ma le ragioni dietro all’orrendo delitto non sono mai state chiarite veramente, ndr).
Un inizio difficile, dunque, anche per la necessità di «tornare a tirare le fila di una comunità addolorata e che si era sentita abbandonata dalla Chiesa», racconta. «E come dare torto a questi fratelli? Per troppo tempo ci siamo un po’ dimenticati della Turchia, un Paese che invece dovrebbe essere in cima alle nostre preoccupazioni, non solo perché è la Terra Santa della Chiesa cristiana, che è nata ad Antiochia, ma anche perché proprio qui oggi si incrociano tutte le questioni mondiali più calde, dalle migrazioni ai rapporti tra le fedi fino agli effetti dello sviluppo neoliberista esasperato. Questo Paese è il vicino di casa dell’Europa! Che cosa vogliamo fare, continuare a erigere muri? È un’illusione!».
Dunque, monsignor Bizzeti, cosa state facendo?
«Devo dire che, per fortuna, papa Francesco ha cominciato a prendere alcune decisioni fondamentali: oltre a me, sono stati nominati altri due vescovi e un nunzio che conosce bene il Paese, e mi sembra che si stia compiendo un lavoro significativo, seppur delicato, per cercare di ridare un po’ di corpo alla presenza cattolica latina».
Qual è la Chiesa che ha trovato in Anatolia?
«La definirei sofferente e abituata a restare chiusa nei propri confini. Qui da secoli non esiste più un’azione missionaria. Negli ultimi decenni, mentre i cattolici latini si sono sempre più rinchiusi nelle chiese e nei conventi, i protestanti hanno fondato 120 comunità nuove. Oggi in Turchia tutti i libri sul cristianesimo o le trasmissioni televisive o radiofoniche che parlano di Gesù sono opera dei protestanti, che si sono immersi tra la gente e hanno trovato i modi per fare arrivare l’annuncio del Vangelo. Ora, finalmente, stiamo cercando di muoverci anche noi».
In che modo?
«Come primissimo intervento abbiamo dovuto attivarci sul piano umanitario, perché ci siamo trovati di fronte all’emergenza di masse di rifugiati in fuga dalla Siria e dall’Iraq, in condizioni tragiche. Perciò abbiamo riaperto la Caritas, organizziamo pacchi alimentari, buoni spesa, forme di microcredito, borse di studio. Ma la presenza dei rifugiati cristiani, che oggi sono più dei fedeli locali, ha aperto anche un’enorme opportunità per la Chiesa».
Ce la racconti.
«Si tratta di famiglie che hanno preferito perdere tutto piuttosto che rinnegare la loro fede, quindi presenze vitali, attive, che però, un po’ come accade anche in Italia, sono sempre andate avanti concentrandosi sulla liturgia, le feste, le tradizioni... non hanno una formazione solida. E noi, purtroppo, non siamo attrezzati per venire incontro con efficacia a queste emergenze pastorali».
Che cosa vi manca di più?
«Ci servono sacerdoti, suore, laici preparati che possano affiancare i nostri cristiani nella formazione e nella pastorale quotidiana, che è ancora più complessa a causa delle grandi distanze. A Iskenderun, dove non ho più un parroco per la cattedrale, la chiesa più vicina è a 60 chilometri; a Van per trovare una Messa bisogna viaggiare addirittura per 800! E poi ci sono questioni importanti che andrebbero risolte a livello culturale e politico, anche con l’interessamento dell’Occidente. Penso in primo luogo al tema di una vera libertà religiosa e del riconoscimento della personalità giuridica per le istituzioni cattoliche, in mancanza del quale abbiamo moltissime difficoltà a fare attività pubbliche. Eppure, vediamo lo Spirito agire ogni giorno».
Può raccontare come?
«Abbiamo tremila rifugiati arrivati dall’Iran e dall’Afghanistan in cerca di Gesù Cristo, che hanno incontrato o grazie ai protestanti o attraverso le vie più incredibili: sogni, siti internet... Non abbiamo un sacerdote di lingua farsi che riesca a seguirli, allora con un piccolo staff abbiamo organizzato un cammino di catecumenato con momenti concentrati lungo l’anno e ora abbiamo aperto una semplice web radio di prima evangelizzazione: la prima settimana di trasmissione abbiamo avuto tremila contatti!».
Avete conversioni locali?
«Sì, in tutte le nostre parrocchie abbiamo turchi musulmani che vogliono diventare cristiani. Siamo molto cauti: ci vuole un cammino lungo e non abbiamo sufficienti operatori pastorali per seguirli, eppure oggi nella mia diocesi i fedeli più entusiasti sono proprio i neofiti. E poi abbiamo casi di musulmani che non intendono convertirsi, ma che vogliono conoscere meglio il cristianesimo e così ci aiutano a veicolarne i veri contenuti e valori nella società turca. Questa è davvero una terra piena di opportunità per una Chiesa che voglia tornare ad essere missionaria».