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martedì 18 febbraio 2025
 
testimonianze
 

La mia missione per bimbi disagiati in Bolivia ora lotta contro il Covid

15/10/2020  Il diario del missionario Aristide Gazzotti della lotta quotidiana della “Casa de los Niños” a Cochabamba, nel centro della Bolivia, nei giorni più duri dell'epidemia del Paese sudamericano: "Non si trovano più bombole di ossigeno, le medicine scarseggiano. Ospedali chiusi e terapie obsolete. Noi andiamo là dove ci chiamano. Ci muoviamo giorno e notte, cercando di portare sollievo a chi è invaso dal panico a causa dal virus. Raccogliamo i morti. Li portiamo alla sepoltura..."

di Aristide Gazzotti

Siamo nati, come piccola Associazione, nel 2003. Siamo nati da un incontro, a cui ne sono seguiti molti altri. Nel luglio di quell’anno, infatti, sono venute a visitarmi due amiche di Roteglia, in provincia di Reggio Emilia, un paese vicino al mio, che si chiama Toano, sulle pendici dell’Appennino Emiliano. Una visita che ha significato l’inizio della nostra semplice storia: Luciana era appena andata in pensione, ed Elisa aveva ricevuto come premio dai genitori un viaggio all’estero dopo essersi laureata. Io vivevo da anni qui, come missionario laico. Insieme ad amici boliviani, avevo appena preso in affitto una casa (con piscina!), nella periferia di Cochabamba, dove cercavamo -con sforzi spesso vani- di strappare dalla strada bimbi e ragazzi scappati di casa.

 

Proprio quell’anno, l’arcivescovo Tito Solari, salesiano, originario di Udine, aveva lanciato un appello a tutti i fedeli: «Se la Chiesa è Madre, non può permettere che i suoi figli dormano in strada!». Noi abbiamo aderito subito a quel grido. Non contavamo né su risorse né su esperienze pregresse. Osiamo pensare che Dio ci ha tenuto una mano in testa e ci ha protetti sin dall’inizio. Eravamo pochi, allora, mossi dall’illusione di testimoniare la maternità della Chiesa. Siamo cresciuti, perché poi sono venuti anche altri dall’Italia a darci una mano. Ci fa piacere ricordare Chiara e Giulia, da Parma. E Gianluca, da Mayori, nel Salernitano.

Nel 2007, spinti da questa amicizia, semplice e  concreta, “suggeriamo” a una Comunità di religiose Francescane di venderci (ossia di regalarci) un bel terreno, proprio nella stessa zona dove vivevamo. Affare fatto. Il nostro sogno è quello di dar vita a un villaggio con tanti bambini ammalati o abbandonati, insieme a famiglie povere o in difficoltà messe dal Signore sul nostro cammino.

Questo desiderio incomincia a farsi realtà il 2 febbraio del 2008, giorno storico, in cui inauguriamo la prima casetta, molto semplice, con tre stanze da letto, un bagno e una cucina, che accoglierà la prima nostra famiglia. Ancora oggi rivediamo l’incredulità riflessa negli occhi di mamma Martha e di papà Candido, insieme alla gioia dei loro 4 figlioletti, a cui, in breve, se ne aggiungeranno altri due. Mesi prima, avevamo scoperto il loro rifugio in un sottotetto senza finestre né pavimento, senza bagno né cucina, a poche centinaia di metri da casa nostra. A partire da quel due febbraio ci siamo “inventati” muratori e abbiamo iniziato la costruzione di un centinaio di casette. E in mezzo alle case, una piccola scuola, spinti dalla necessità, perché molti dei nostri bimbi soffrono malattie gravi, come l’AIDS, e sono discriminati nelle scuole pubbliche della zona, come succede a Hilda, che non parla bene lo spagnolo, ed è considerata “kh’añiwa” dalla sua maestra, vale a dire, una bimba “incapace di imparare”, a causa delle sue umili origini rurali.

Anche noi veniamo da umili origini rurali. E ne siamo fieri. Ma ci sentiamo ben accolti in questo Paese in cui il volersi bene è istintivo.

In 13 anni è sorto, attorno a noi, non solo un villaggio, ma soprattutto una comunità che impara a crescere insieme, che cerca di mettere in secondo piano le difficoltà o i problemi personali per accogliere chi è più piccolo, debole o sofferente. Siamo ormai in 500, nel nostro villaggio, che porta il nome significativo di “Cittadella Arcobaleno”: 110 famiglie e 300 bambini.

C’è la cappellina al centro, tutta in legno di pino. L’abbiamo pensata con tante vetrate, persino sul tetto, per abituarci a rivolgere il nostro sguardo al Cielo. Dietro l’altare, un mosaico, con oltre 70 fotografie. Sono i nostri bimbi, i nostri genitori, i nostri fratelli e le nostre sorelle che continuano a vegliare su di noi, dal cielo. Attorno e sotto il pavimento, un cimiterino di piccoli santi, con 26 dei nostri bimbi che non ce l’hanno fatta...

In questi sei mesi di pandemia, la Casa de los Niños si è trasformata in centro di riferimento e di accoglienza per centinaia di famiglie che non sanno a chi rivolgersi. Apriamo le nostre porte. Ci stringiamo. Sono mesi difficili per tutti. Non si trovano più bombole di ossigeno, le medicine scarseggiano. Ospedali chiusi e terapie obsolete. Noi andiamo là dove ci chiamano. Ci  muoviamo per città e dintorni, giorno e notte, cercando di portare sollievo a chi è invaso dal panico a causa dal virus. Raccogliamo i morti. Li portiamo alla sepoltura... Ci facciamo tante domande e viviamo tanti dubbi, ma ci accompagna l’incoscienza luminosa di quel gesto di Gesù davanti a un lebbroso supplicante ai suoi piedi: “Signore, se vuoi, puoi guarirmi”. Gesù, prendendolo per mano, lo solleva... Gesù non si è preoccupato del contagio: l’ha preso per mano. Noi pensiamo che questo virus, che ha terrorizzato il mondo intero, ci chiede di prendere per mano chi è abbandonato nel proprio dolore e vive nell’angoscia. Ci chiede di guardare in faccia volti straziati dal virus, con semplicità e prudenza. 

Per questo, ascoltiamo i suggerimenti di medici amici di Milano che sono già passati per la stessa esperienza: corticoidi, anti infiammatori e ossigeno salvano vite! Aggiungiamo, di nostro, la preghiera notturna, qui, nella cappellina della nostra casa. Crediamo con fede cieca nella bontà di questa terapia. Ci sorprendono tanti contagi anche non nella nostra cittadella, ma questo non ci impedisce di andare avanti, di guardare fuori da noi stessi. Siamo invitati a portare in ospedale, per le terapie, a turno, i 70 bambini di Cochabamba sofferenti di tumori, molti dei quali sono affetti dal virus. Ci ringraziano oggi le loro famiglie, insieme a tutte le persone che abbiamo seguito e avvicinato in questi mesi.

Non siamo soli in questo impegno, perché viviamo a due passi dalla parrocchia e ogni mattina condividiamo la Messa e le iniziative con don Fabio Calvi, il parroco, che ci è sempre vicino e ci accompagna in tutto, proprio lui che è originario di Bergamo!

Il gemellaggio di solidarietà con la parrocchia riaccende il sorriso e la speranza sui volti di mamme disperate che ci chiamano perché non hanno più niente per dar da mangiare ai loro figlioletti. Condividiamo tutto quel poco che abbiamo e basta, anzi, ne avanza. E’ così che spuntano tanti immigrati venezuelani che vengono qui da noi a cercare sollievo.

L’esperienza della Casa de los Niños è un’esperienza vera, che cresce in silenzio: sulla preghiera, sulla debolezza e su una buona dose di incoscienza e improvvisazione. Ma qui siamo tutti insieme...

 

 

 

 

Per questo, ascoltiamo i suggerimenti di medici amici di Milano che sono già passati per la stessa esperienza: corticoidi, anti infiammatori e ossigeno salvano vite! Aggiungiamo, di nostro, la preghiera notturna, qui, nella cappellina della nostra casa. Crediamo con fede cieca nella bontà di questa terapia. Ci sorprendono tanti contagi anche non nella nostra cittadella, ma questo non ci impedisce di andare avanti, di guardare fuori da noi stessi. Siamo invitati a portare in ospedale, per le terapie, a turno, i 70 bambini di Cochabamba sofferenti di tumori, molti dei quali sono affetti dal virus. Ci ringraziano oggi le loro famiglie, insieme a tutte le persone che abbiamo seguito e avvicinato in questi mesi.

Non siamo soli in questo impegno, perché viviamo a due passi dalla parrocchia e ogni mattina condividiamo la Messa e le iniziative con don Fabio Calvi, il parroco, che ci è sempre vicino e ci accompagna in tutto, proprio lui che è originario di Bergamo!

Il gemellaggio di solidarietà con la parrocchia riaccende il sorriso e la speranza sui volti di mamme disperate che ci chiamano perché non hanno più niente per dar da mangiare ai loro figlioletti. Condividiamo tutto quel poco che abbiamo e basta, anzi, ne avanza. E’ così che spuntano tanti immigrati venezuelani che vengono qui da noi a cercare sollievo.

L’esperienza della Casa de los Niños è un’esperienza vera, che cresce in silenzio: sulla preghiera, sulla debolezza e su una buona dose di incoscienza e improvvisazione. Ma qui siamo tutti insieme...

 

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