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venerdì 29 settembre 2023
 
 

Handicap, la mia vita con Zigulì

16/04/2012  Un padre ha raccontato in un libro duro e insieme dolcissimo i suoi giorni accanto al figlio disabile. Sul nuovo numero di Famiglia Cristiana, un'inchiesta sull'argomento.

«Se hai un figlio handicappato, due più due non fa mai quattro». È l’unica certezza, bisogna farsela bastare. E se è una sacrosanta verità che «non puoi capire fino in fondo che cosa significhi vivere con un figlio disabile se non sei suo padre o sua madre», c’è tuttavia un modo per approssimarsi il più possibile alla comprensione: leggere il libro-testimonianza da cui sono tratte queste frasi. Lo ha scritto Massimiliano Verga, un simpatico 42enne dall’aspetto di una ragazzo, professore all’Università Bicocca di Milano, padre di Moreno.

Sembrava tutto a posto, quando nacque, nel novembre di otto anni fa. Tre settimane dopo diventò quel che è oggi: un disabile grave, cieco, epilettico, con un cervello grande come una zigulì, la famosa caramella. «Ha avuto un’ischemia, che ha danneggiato l’area cognitiva e visiva, ma una diagnosi precisa non l’abbiamo mai ottenuta», spiega Massimiliano. Lo abbiamo incontrato nella sua casa di Milano per sentire dalla sua voce come è nato Zigulì (Mondadori), un racconto sulla disabilità duro e dolce, sincero e commovente come, forse, non ne sono mai stati scritti, perché parla di pannolini sporchi, stanze imbrattate di escrementi, rabbia, ma anche di piccoli attimi di intimità che riempiono il cuore.

Per cominciare, avete idea del senso di colpa che morde il genitore di un figlio handicappato? «Non riguarda il fatto che la vita di Moreno sia quella che è, dato che non è conseguenza di una scelta. Il punto è che fai di tutto per renderlo sereno, ma ti accorgi che non ci riesci. “Ho fatto abbastanza?” è una domanda che ti perseguita. Se lo chiedono i genitori in generale, figuriamoci in una situazione di disabilità. Penso però anche che se smettessi di avvertire tale inadeguatezza», dice Massimiliano, «vorrebbe dire che non sono più accanto a lui».

Una delle esperienze più dolorose è la mancanza di comunicazione, l’assenza di quegli sguardi capaci di dire tutto: «Moreno prova a comunicare. Ha strumenti diversi dai miei, oppure io non ho gli strumenti per capirlo. Ad esempio, quando si mette a urlare, in maniera insopportabile, non sai se imputarlo alla fame, al bisogno di essere cambiato, a un mal di testa... Non associa gesti alle sensazioni, come posso capirlo? Cerco di interpretare i suoi segnali, ma non indovino mai la prima volta. Hai di fronte tuo figlio che ti sta chiedendo aiuto – non si tratta di un capriccio –, ma non sai come rispondergli. Ti senti inutile».

Mentre parliamo, Moreno è nelle sua scuola speciale, «con delle maestre meravigliose da cui sta imparando tanto e che lo rimandano a casa pulito e profumato. Che non ci sia un insegnante per ogni bambino con handicap, è un segno di inciviltà».

Moreno non è figlio unico: è arrivato dopo Jacopo, che oggi ha 10 anni, e prima di Cosimo, di cinque. «Il libro è dedicato a loro, non in quanto sani, come qualcuno è riuscito a pensare, ma per dire: il libro è su papà e Moreno, ma voi siete altrettanto importanti e presenti. A Jacopo l’arrivo del fratello ha tolto spazio; Cosimo ha trovato una situazione già esistente, ma anche a lui qualcosa è stato sottratto. Non c’è dubbio che si sono sentiti dire qualche no in più, perché le priorità sono oggettivamente definite dalla situazione». Con orgoglio Massimiliano riconosce che i due fratelli hanno mostrato «maturità e generosità, per nulla mielose né scontate. Non glielo abbiamo insegnato né io né la madre, forse qualcosa hanno appreso osservandoci, ma ci hanno messo molto di proprio. Al più piccolo, a volte, scappa qualche frase rivelatrice (un giorno mi ha detto: “Io e Gabo”, un suo compagno di classe, “abbiamo un fratello disabile!”, come fosse un segreto che li univa), ma poi cambia subito discorso». Nel libro la moglie resta volutamente sullo sfondo: «Sostituirmi ai suoi occhi sarebbe stato un errore. Il fatto che non compaia, non significa certo che non sia presente».

Al di fuori delle pareti di casa, c’è un mondo che non sembra fatto su misura delle persone portatrici di handicap. «Le nostre città non sono strutturate su misura di nessuno, men che meno dei disabili. Eppure la disabilità ci riguarda tutti, perciò occuparsene equivale a occuparsi di noi stessi. Ai miei studenti dico sempre: immaginate che vi capiti di rompervi una gamba e di dover portare il gesso per un mese: come verreste a lezione? Con quali mezzi? Chi vi aiuterebbe? E che dire di un anziano che ha problemi di mobilità? Senza dimenticare che tutti, un giorno, diventeremo vecchi con qualche piccola forma di handicap. Il fatto è che le barriere architettoniche esistono, certo, ma la questione è culturale: quando potrò vedere gli handicappati ai parchi-gioco, gli anziani sui mezzi di trasporto, le carrozzine nei bar e sulle strade? Solo quando capiremo che la realtà è fatta anche di questi “limiti”. Invece la nostra società tende a nasconderli. E così la dignità di queste persone viene calpestata».

Basta passeggiare per strada con un figlio disabile per averne la prova. Massimiliano dedica alcune pagine allo “sguardo degli altri”: «Capisco che la prima reazione sia di disagio, proprio perché l’handicap ti costringe a confrontarti con te stesso. Ma non possiamo accettare una cultura che vede nell’handicappato un peso e che risolve la faccenda con la beneficenza». Perciò l’espressione politically correct “diversamente abile” a Massimiliano non piace, dato che rischia di risolversi in «una formula di comodo, fino al giorno in cui queste abilità differenti non verranno riconosciute e non potranno esprimersi. M’importa che Moreno venga accettato come persona e come cittadino parte della comunità, poi chiamatelo come volete».

E invece si ci trova a sbattere continuamente contro un sistema che, rispetto all’handicap, è ancora arretrato. La burocrazia, ad esempio: «Qualche esempio? Passaggio dalla materna alle elementari: per l’iscrizione alla scuola speciale devo riprodurre l’intera documentazione presentata due soli anni prima. E stiamo parlando di un bambino a cui è stata accertata l’invalidità al cento per cento. Ancora: ogni anno devo rinnovare la tessera gratuita del tram. Ma se è invalido permanente! E centinaia di telefonate per avere i pannolini, dopo aver scoperto, casualmente, quando già aveva tre anni, che era un nostro diritto averli gratuitamente... Possibile che non si possa mettere in mano ai genitori un documento con tutte le informazioni necessarie? Al contrario, si passa il tempo fra uffici, segreterie telefoniche, impiegati...».

Meno male che esistono le associazioni: «Le voglio ringraziare pubblicamente. Il nostro stato sociale è allo sbando, si regge solo grazie alla buona volontà di tante persone. Allora dico: almeno rispettiamole, lasciamole lavorare. Se un ente vince un bando e ottiene dei fondi, che gli vengano dati subito, senza lasciar passare mesi e anni, lasciando sole le famiglie, che da sole non ce la possono fare». “Chi se ne occuperà, quando io non ci sarò più?”, è la domanda conficcata nel cuore di ogni genitore che abbia un figlio non autosufficiente. «Un pensiero atroce... I fratelli dovranno scegliere cosa fare. Ma il problema è: dove le mettiamo queste persone? Le famiglie cercano di lasciare qualche risparmio, quando sono in grado, ma non basta. Un Paese civile dovrebbe porsi il problema».

È questa la vita dolceamara di Massimiliano con il suo Moreno.
E non è una vita di soli dolori e di sole difficoltà. Il padre racconta di aver imparato qualcosa di essenziale dal figlio: il rispetto degli altri. «Grazie a lui, mi sono chiesto che cosa significa rispettare chi ci sta intorno. Non è un insegnamento di poco conto. Ho imparato a guardare gli altri con occhi più sensibili. E a dare il giusto peso alle cose: è un bel regalo». E poi c’è tutto quell’amore senza parole, quel prendersi cura, quell’abbracciarsi, quelle urla e quei momenti di intesa che vengono condivisi tutti i giorni: «Ho dovuto aspettare tutto questo tempo per capire che non posso in alcun modo toglierti il dolore e tu non puoi togliere il mio, ma che un modo per consolarci forse esiste».

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