Chi tocca la scuola si brucia: l’abbiamo già detto e scritto, eppure anche stavolta sembra così. I governanti, nel migliore dei casi, ci possono mettere tutta la buona volontà possibile, ma alla fine escono esausti dal confronto con le parti sociali, costretti ad accettare uno sperpero di consensi che, per i politici, è sempre sanguinoso.
Non potrebbe essere altrimenti: in quale altro luogo cresce e si forma la coscienza di un Paese? Dove, se non in classe, viene trasmessa la tradizione culturale? E’ lì, nello spazio didattico, che adulti e giovani si incontrano davvero. I primi sono chiamati a ripristinare le gerarchie di valore nel mare magnum del web. I secondi devono diventare grandi. Due compiti proibitivi, tuttavia ineludibili. Se abbandoniamo questa postazione, lasciamo nel vuoto le prossime generazioni.
Ecco perché dovremmo leggere con pazienza superiore alla norma il maxiemendamento sul quale il governo ha posto la fiducia. Quel testo, frutto di innumerevoli mediazioni, assomiglia a un pavimento di cristallo: delicatissimo, rischia di rompersi a ogni passo. Pure, così com’è, ti fa capire un sacco di cose. La tanto invocata riforma della scuola in realtà esiste da diciotto anni: è appena diventata maggiorenne. Venne promulgata il 15 marzo 1997. Si chiama autonomia degli istituti. Tutti ne hanno sentito parlare, ma pochi sanno che se fosse davvero attuata, porterebbe a cambiamenti sostanziali che invece non sono mai avvenuti. In pratica ogni scuola è chiamata a realizzare sistemi di apprendimento unici.
Se volessimo, semplicemente concretizzando quegli assunti che sono stati appena rilanciati nel cosiddetto “piano di programmazione triennale”, potremmo fare tutto: stravolgere il quadro orario, mutare i programmi, cambiare le verifiche, affermare il metodo cooperativo, incrementare i laboratori, sostituire alle lezioni tradizionali speciali moduli didattici, superare l’idea del gruppo classe, prevedere sostegni linguistici per gli studenti immigrati di prima e seconda generazione, portare i ragazzi a fare esperienze culturali all’esterno della scuola, aprire gli istituti al territorio trasformandoli in comunità educative.
La domanda allora è: perché l’autonomia si riduce quasi sempre a una buona intenzione? Molto dipende dal fatto che il sistema dell’istruzione nazionale si basa ancora oggi sul precariato. Come fai a programmare un modello virtuoso se gli organici cambiano ogni nove mesi? Per incidere davvero dovresti motivare i docenti, formarli, dargli entusiasmo. Esistono, e non crediate siano pochi, quelli straordinari che ogni giorno compiono una rivoluzione in classe. Nessuno li vede: sono loro - riprendo una mia definizione - gli specialisti dell’avventura interiore. Gli artigiani del tempo. I mazzieri della giovinezza. E, come in ogni professione, ci sono i frustrati, gli sfiduciati. La questione, inutile negarlo, è anche economica: finché gli stipendi resteranno così bassi, non puoi pretendere che tutti diano il massimo. Lo farà solo chi è predisposto. Gli altri tireranno i remi in barca.
Entriamo nel merito. Pensiamo soltanto allo spazio didattico. Si tratta di un elemento decisivo. Bene: l’autonomia ci consentirebbe di ridisegnarlo. In sostituzione dell’aula tradizionale, in cui i ragazzi sono obbligati a restare fermi seduti ai banchi dalle otto alle quattordici, con tutte le conseguenze che sappiamo, stanchezza, noia e mancanza di concentrazione, potremmo prevedere degli “ambienti di apprendimento” dove uno o due docenti della medesima disciplina, con le tecnologie che ritengono più utili, organizzano la lezione lasciando che siano gli allievi a spostarsi, come del resto avviene in alcuni paesi europei. In questo modo, senza rinunciare al patrimonio della tradizione, si favorisce una didattica cooperativa basata sull’esperienza. Non una pura e semplice trasmissione del sapere, ma la creazione di un percorso conoscitivo da compiere insieme. Queste sperimentazioni sono già attive in numerose scuole italiane: purtroppo restano spesso invisibili.
Facciamo un altro esempio. Oggi quando un ragazzo viene bocciato, anche più volte, gli si ripropone lo stesso schema che l’ha visto fallire: con i risultati che possiamo immaginare. Dovremmo piuttosto costruire percorsi di recupero alternativi. Anche qui esistono già numerose azioni pedagogiche innovative: le cosiddette “simulazioni d’impresa” nelle quali i ripetenti evidenziano energie e creatività inaspettate. Del resto uno dei nodi più spinosi è quello della valutazione. Basta leggere qualche scanzonata risposta ai recenti test Invalsi da parte degli studenti per rendersi conto della situazione. Barzellette, scarabocchi e battutacce tali da invalidare molte verifiche, al punto da farci riflettere: se la medesima fantasia creativa fosse stata applicata sui banchi di scuola, quegli stessi ragazzini impertinenti avrebbero preso dieci. I sostenitori di queste prove hanno bisogno di parametri oggettivi perché, secondo loro, soltanto così si possono misurare le famigerate “competenze”. Chi invece è contrario s’affanna a spiegare: non stiamo parlando di ingegneri, i quali se sbagliano i calcoli provocano il crollo del ponte e nemmeno di medici, che se non azzeccano la diagnosi possono far star male il paziente. Noi intendiamo riferirci al mitico Romoletto, quindicenne di primo pelo: lui vuole entrare sempre in seconda ora perché, dice, si sveglia tardi; nessuno lo ha mai visto prendere appunti; se l’insegnante si permette di vietargli l’uso del cellulare in aula, sbotta. Sono quelli come lui che contribuiscono a far lievitare i numeri della dispersione scolastica che, in certe zone d’Italia, raggiunge punte clamorose.
Considerazioni non dissimili potrebbero essere fatte per la valutazione dei docenti. Siamo proprio sicuri che il professore migliore sia quello che organizza progetti e patrocina iniziative per coinvolgere gli studenti? In molti casi è così, in altri no. Spesso l’insegnante che nel collegio docenti non prende mai la parola, quello che sbuffa alle riunioni per materie, in aula dimostra invece tutta la sua forza pedagogica, basata su quintessenze indicibili, carismi personali, idiosincrasie indefinibili, non inquadrabili in schemi oggettivi: e i ragazzi lo sanno. Ora sembra che molta parte della discussione si stia concentrando sui poteri del dirigente scolastico al quale, nel già famigerato comitato di valutazione, verranno affiancati tre docenti interni, due genitori, uno studente e un componente esterno. Qui davvero ci vengono i brividi. Il timore che l’ambiente educativo si trasformi in un campo di battaglia è concreto. Come al solito, tutto dipenderà dal buon senso di questo o di quello. Ma i nodi strutturali non si scioglieranno. E la mitica autonomia rischierà, ancora una volta, di restare un sogno.