Non serve molto, per capire che cosa
voglia dire essere giovani e
crescere con il rischio della guerra.
Basta trovare un poco di coraggio
per guardare in questi occhi:
quelli di alcuni dei ragazzi di Israele
morti mentre, da soldati di leva, combattevano
a Gaza.
E per favore: niente politica. Tutti loro,
se avessero potuto scegliere, avrebbero
preferito vivere, e vivere in pace.
Come la Serepta Mason dell’Antologia
di Spoon River direbbero: “Il fiore della
mia vita sarebbe sbocciato d’ogni lato/
se un vento crudele non avesse appassito
i miei petali”.
Forse pochi si rendono conto che
Israele è un Paese di giovani: il 43% della
popolazione ha meno di 24 anni. Come
in tutto il Medio Oriente, del resto,
territori palestinesi compresi, dove più
del 50% della popolazione ha un’età inferiore
ai 25 anni.
Queste guerre, dunque, sono prima
di tutto una strage di giovani dell’una e
dell’altra parte, di speranze, di prospettive
per il futuro. Roy Peles, per esempio:
aveva 21 anni, era tenente da un
mese e prima di essere arruolato aveva
passato un anno nel kibbutz Meitzar,
in Galilea, una scuola speciale rigorosamente
laica gestita da un “parlamento”
di studenti. O il sergente Amit Yeori, 20
anni, tornato a Gerusalemme solo per
essere sepolto sul Monte Herzl, dove a
piangerlo, accanto ai parenti, c’era una
folla di ragazzi. Se non fossero stati tutti
distrutti dalle lacrime, sarebbe parsa
una gita scolastica.
Questo sono le guerre di oggi. Ed è
questo che dovremmo tenere alla mente
prima di ogni cosa. Prima di qualunque
ragionamento e di qualunque calcolo,
lasciamo parlare il cuore. Che
non può volere, e infatti non vuole,
nulla di simile.