(Nella foto: Dean Martin, Frank Sinatra e Jerry Lewis, in un evento di raccolta fondi per Telethon a Las Vegas, nel 1976)
Con la scomparsa di Jerry Lewis, avvenuta domenica a 91 anni nella casa di Las Vegas, se ne va l’ultimo re della risata. Un titolo indiscusso nel regno del cinema. Perché se andiamo oltre l’ironia, propria di parecchi bravi commedianti (Robin Williams, Jim Carrey, Billy Cristal, Eddie Murphy) e la satira pur intelligente (e qui il maestro resta Woody Allen), è stato per decenni lui il depositario della vera comicità sul grande come sul piccolo schermo. Dopo i miti a cavallo del cinema muto (Harry Langdon, Buster Keaton, Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio), come nessun altro Lewis ha saputo sbeffeggiare nevrosi e timidezze dell’uomo moderno dando sempre e comunque al suo personaggio delicatezza ed eleganza. Mai una parolaccia, mai una volgarità eppure valanghe di risate grazie ai tic, agli sketch, alle gag surreali inventate a getto continuo e sparse come chili piccante sulle trame leggere di film di successo quali Il nipote picchiatello, Occhio alla palla, Artisti e modelle. Nella prima fase della sua lunga e altalenante carriera in coppia con Dean Martin (questi giovane virile e acchiappa sottane, lui infantile e bisognoso di protezione). Poi cresciuto sempre più da solo, fino ad arrivare a Le folli notti del dottor Jerryll, parodia capolavoro del 1963.
Nato nel 1926 a Newark nel New Jersey da genitori ebrei russi (il suo vero nome era Joseph Levitch) entrambi attori del vaudeville, il giovane Jerry calcò presto il palcoscenico grazie alle straordinarie doti d’imitatore e all’esenzione dal servizio militare, mercè la perforazione a un timpano a seguito di un’otite che avrebbe dovuto suonare come campanello d’allarme per una salute malferma, messa poi negli anni a venire a dura prova dalla faticosa vita del palcoscenico. Per un decennio, dal ’46 al ’56, andò avanti il fortunato sodalizio in coppia con Dean Martin. Da lì il successo mondiale con film e programmi tv in cui affinò via via il suo “carattere” di piccolo uomo alle prese con le assurdità della società moderna. Chi non ricorda l’irresistibile gag muta della macchina da scrivere? Dove Keaton aveva reagito alle stesse difficoltà con sdegno e Charlot con stizza ribelle, Lewis portò una vena nevrotica, parossistica, al limite del demenziale. In più studiava e conosceva in modo approfondito la struttura e i tempi della comicità, i pregi e le infinite possibilità della cinepresa passando presto a fare il regista di se stesso in film (Ragazzo tuttofare, L’idolo delle donne, Tre sul divano, Scusi dov’è il fronte?) dove la pungente satira sociale aveva un sottotraccia psicanalitico. Un inventore, un rivoluzionario della comicità al cinema. Così geniale e irriverente nello smantellare i luoghi comuni, frustrando le aspettative del pubblico per costringerlo a una partecipe collaborazione, che la critica europea e la rivista Cahiers du Cinéma arrivarono a celebrarlo come uno della Nouvelle Vague, però in chiave comica. Per Jean-Luc Godard, mai tenero nei giudizi, era più grande di Chaplin.
Proprio al culmine della popolarità, però, Jerry Lewis dovette per anni restare ai margini dello show business a causa dei suoi gravi problemi di salute: i lancinanti dolori alla schiena causati dai postumi della rottura di una vertebra per una vecchia caduta sul set. Seguirono i problemi per abuso e poi assuefazione agli antidolorifici. Quindi l’operazione per un cancro alla prostata, seguita da un periodo di depressione. Più in là, l’intervento per l’applicazione di un quadruplo bypass coronarico. Infine, in vecchiaia, il tumore che ne ha causato la morte. Insomma, una vita a contatto col dolore. Probabilmente fu per questa conoscenza diretta e per l’amore verso i figli (sei avuti dalla prima moglie Patty Palmer e l’ultima, nel 1992, dalla nuova consorte Sandee Pitnick) che l’attore s’impegnò fin dal 1966 nella raccolta di fondi per le ricerche sulla cura alla distrofia muscolare con il programma televisivo di beneficenza Telethon. Format che sarebbe poi diventato marchio mondiale, clonato in decine di paesi con la gratuita partecipazione delle star più famose, capace di raccogliere fino ad oggi quasi 2 miliardi di dollari sempre e solo per la ricerca medica. Insomma, Jerry Lewis re della risata ma anche alfiere di bontà e di generosità. Un ruolo umanitario che gli è stato riconosciuto perfino da Hollywood con la concessione, nel 2009, del premio Jean Hersholt: sorta di Oscar onorario, con tanto di statuetta, che esula tuttavia dai meriti artistici. Alloro comunque tardivo visto che nel 1977 era stato già candidato al Nobel per la pace (primo e unico artista nella storia del premio) ed era stato poi insignito dalla Francia della Legion d’Onore.
La curiosità è che, malgrado l’immensa popolarità e la grandezza universalmente riconosciuta, Jerry Lewis non abbia mai vinto l’Oscar. Cosa che rinfocola la polemica su un certo atteggiamento di sdegnosa superiorità che l’Academy avrebbe sempre avuto nei confronti della comicità, tanto che lo stesso Chaplin dovette pazientare fino alla vecchiaia per avere, nel 1972, quell’Oscar alla carriera da sempre meritato. Ebbene, al “nipote picchiatello” è andata anche peggio. E pensare che, tornato in scena dopo il periodo d’ombra, negli anni ’80 Jerry Lewis aveva ancor più elevato la sua maschera passando da film come Bentornato picchiatello a Re per una notte, vero capolavoro agrodolce di Martin Scorsese: commedia nera sulle storture di fama e successo in cui Lewis interpretava un popolare presentatore televisivo perseguitato da un fanatico ammiratore (niente popò di meno che Robert de Niro). Pellicola illuminante e acida su quelle perversioni che ancor oggi, passando dalla Tv a Internet, avvelenano la nostra quotidianità. La ciliegina sulla torta di quasi settant’anni di carriera con una sessantina di film, alcuni dei quali grandissimi. Eppure, dicevamo, mai un Oscar. Il solo premio importante ottenuto da Jerry Lewis è stato il Leone d’oro alla carriera consegnatogli alla Mostra del cinema di Venezia nel 1999, condito con un sincero e oceanico tributo di applausi. Per carità, non è stato il primo a subire cotanta ingiustizia. Lassù lo aspettavano artisti delusi del calibro di Cary Grant, Marlene Dietrich, Steve McQueen, Marilyn Monroe, Robert Mitchum, Richard Burton, Rock Hudson, Albert Finney, Peter O’Toole, Rita Hayworth, James Dean (morto, però, giovanissimo). Adesso che è arrivato anche lui, ci faranno su una bella risata.