In pochi sanno catturare l’essenza di Napoli come il regista Mario Martone. Nel tempo è stato capace di coglierne le sfumature, i colori, di aggirarsi tra le vie e i quartieri con sicurezza e sguardo curioso. La sua Napoli è un luogo feroce, disperato, dove la violenza si unisce ai sentimenti, fin dal suo esordio Morte di un matematico napoletano.
Adesso Martone torna in concorso al Festival di Cannes, dopo L’amore molesto nel 1995. Il titolo è Nostalgia, tratto dal penultimo romanzo di Ermanno Rea. Racconta di Felice Lasco. Per decenni ha vissuto tra Africa e Medio Oriente, ma ormai ha deciso di rivedere la sua Napoli, sua madre, immergersi nei ricordi. Nostalgia, appunto. Ma anche ricerca di sé stessi, comprensione dei propri errori.
È un film sul passato che si fa presente, sul rimorso, sul perdono. Il protagonista è Pierfrancesco Favino. Il suo personaggio si imbatte in don Luigi Rega, un prete che non abbassa la testa davanti alla criminalità. Vuole tenere i ragazzi lontani dalla strada. Lui è Francesco Di Leva, di nuovo con Martone dopo Il sindaco del Rione Sanità. Il Rione Sanità è il palcoscenico del cineasta napoletano, il luogo ideale in cui descrivere umanità perdute, lotte quotidiane, leggi antiche.
Nostalgia ha le musiche del noir, le passeggiate notturne di Favino potrebbero ricordare anche il cinema francese classico. E sullo sfondo c’è il libro di Rea, il suo commiato da Napoli. In fondo anche quello di Lasco, quando era adolescente, è stato un arrivederci, non un addio. Il richiamo delle proprie radici è uno degli elementi cardine di Nostalgia, un film che scava in profondità, che non si accontenta di soluzioni semplici. Rispetto a Qui rido io, è una vicenda più raccolta, intimista. È la cronaca di una lontananza prolungata, di un sentirsi orfani della propria esistenza. Martone ragiona sulla malinconia, sul distacco, dipingendo una comunità in subbuglio, che non vuole più farsi dominare. Chi sono i giudici? Chi sono gli aguzzini? Non ci viene data una risposta. A sopravvivere è il coraggio di opporsi, di cambiare direzione nonostante le proprie colpe.