Da sinistra, Benjamina Karić, 30 anni, sindaco di Sarajevo, e Roberto Gualtieri, 55, sindaco di Roma, fotografati insieme a Firenze, dove hanno partecipato al Summit "Mediterraneo, frontiera di pace". Foto tratta dal proflio Twitter del sindaco di Sarajevo.
«È accaduto trent'anni fa. Non pensavo possibile che tornasse a seminare morti e a popolare incubi. Io, noi, la guerra l'abbiamo patita sulla nostra pelle. Davvero la storia non insegna nulla». Benjamina Karic ha 30 anni, insegna Diritto romano («historia magistra vitae, sed...»; scandisce passando rapida dall'inglese al latino): torna con la memoria alla primavera del 1992, quando cominciò il tragico assedio di Sarajevo, la città di cui è sindaco dal 2021. «Quando il 5 aprile 1992 i primi colpi caddero su Sarajevo io stavo per compiere un anno: sono nata l'8 aprile 1991. Nessuno della mia famiglia è morto a causa del conflitto, ma ho pianto vicini di casa e amici. Tanti. Troppi. Quanto sta accadendo tra Russia e Ucraina è un disastro per l'Europa. Dopo l'aggressione di Sarajevo e della Bosnia-Erzegovina, il Vecchio Continente aveva detto "Mai più la guerra". Invece sta succedendo di nuovo»
Benjamina Karic è uno dei circa 60 sindaci che insieme con altrettanti vescovi hanno partecipato al summit Mediterraneo, frontiera di pace, svoltosi a Firenze tra il 23 e il 27 febbraio. «Abbiamo mandato un messaggio volto a mantenere la pace e la stabilità nei nostri Stati e nelle nostre città. Stiamo discutendo di tanti temi, dal cambiamento climatico alla situazione sanitaria, ma la cosa più importante è rafforzare la cooperazione tra persone, organismi internedi, comunità civili, fedi religiose. Le bombe distruggono ponti, strade, monumenti e case; possono ferire, mutilare o uccidere, ma non possono cancellare l'anima nè delle singole persone nè delle città. No. Quella sopravvive. Ripartiamo da lì. Ripartiamo dalle città: i comuni non sono marginali, sono le istituzioni più a stretto contattto con la gente. Siamo il laboratorio sempre aperto della democrazia: l'armonia e lo sviluppo delle città, fatto di aree industriali, di strade, ponti, illuminazione, verde pubblico, e tante altre cose, postula la fatica dell'ascolto, l'arte della mediazione, la capacità di adottare decisioni che vanno spiegate prima di essere tradotte in pratica. Tutto ciò è lontano anni luci dall'autocrazia così cara a certi leader europei e del lontano Oriente»
Da sinistra monsignor Mounir Khairallah, 69 anni, vescovo di Batroun, e il cardinale Béchara Boutros Pierre Raï, 82, patriarca maronita, presidente dell'Assemblea dei patriarchi e dei vescovi cattolici del Libano.
Monsignor Mounir Khairallah, vescovo di Batroun, non lontano dal confine tra il Libano e la Siria, scuote la testa. Le notizie che da Kiev e dall'Ucraina intera lo raggiungono a Firenze, al Forum "Mediterraneo, frontiera di pace", riaprono ferite antiche. «Era il 1958. Avevo 5 anni. Un killer, uno straniero, entrò in casa e uccise mamma e papà. L'indomani sarebbe stato il 14 settembre, Esaltazione della Croce, una festa molto sentita da noi in Libano Rimanemmo orfani io e i miei fratelli. Ci tirò su una zia monaca. Che da subito ci disse: "Preghiamo non tanto e non solo per i vostri genitori, che sono martiri, ma per chi li ha ammazzatt"».
Preghiera e perdono. Senza, non si va da nessuna parte.«Ci ho messo del tempo, ma con la Grazia di Dio ce l'ho fatta. Sono stato ordinato sacerdote il 13 settembre 1977. Perdonare non è stato né rapido né facile. Ma ce l'ho fatta. Una mano me l'ha data un giovane militante falangista quando, durante la guerra, mi ha domandato a bruciapelo: "Ma se l'assassino dei tuoi chiedesse di essere confessato da te, se fosse pentito, tu lo assolveresti?". Un ulteriore stimolo a scendere in profondità. A essere sincero con Dio e con me stesso. A implorare il dono del perdono. Facile amare chi ci ama. Pregare per i nemici e amare, a-m-a-r-e, i nemici, chi ci fa del male...»
La riflessione di monsignor Mounir s'allarga. «Dopo la stagione dell'odio, della guerra e della morte, la rinascita, quella vera, passa attraversa la riconciliazione. In Libano s'è sparato e ucciso in maniera sistematica dal 1975 al 1990, anno in cui entrarono faticosamente in vigore gli accordi firmati, sotto egida Onu, a Ta'if, in Arabia Saudita, il 22 ottobre 1989. Non tutto è filato a dovere. Anzi. Le milizie dovevano essere disarmate e cedere il passo. In realtà sono entrate nello Stato. Chi ha fatto la guerra non è stato capace di gestire la pace».
Monsignor Mounir elenca i problemi ancora sul tappeto: «Il potere concepito come affermazione di una parte e non come un impegnarsi per il bene comune, la corruzione, l'ingordigia delle grandi potenze che vogliono continuare a tenere i piedi sulla nostra terra per motivi strategici, militari ed economici.... Il 15 maggio prossimo si svolgeranno le elezioni legislative. Speriamo in un risveglio delle coscienze e in una mobilitazione diffusa, soprattutto dei giovani. Al di là delle differenze culturali, etniche e religiose. Noi come Chiesa e società civile chiediamo una nuova Conferenza Onu che disinneschi possibili scontri circa le aree di influenza nonché l'acceso alle fonti enegetiche e la loro gestione (nelle nostre acque territoriali hanno scoperto giacimenti sottomarini di gas e petrolio). Al tavolo, con noi, dovrebbero sedersi i grandi attori di oggi: Usa, Russia, Francia, Turchia, Paesi arabi».
Mentre sibilano i missili nei cieli dell'Ucraina, nasce la Carta di Firenze. Utopia? «No. A un patto, però. Che si parta dal basso, da chi - a livello locale - sta con la gente e davvero lavora con essa e per essa. Comuni e comunità religiose. Insieme. A Firenze c'era una dozzina di vescovi libanesi di diverse confessioni cristiane. E i sindaci musulmani di Beirut e di Tripoli. Da sempre viviamo insieme. Vogliamo continuare a farlo. Davvero il Mediteranneo può, deve essere una frontiera di pace. Impariamo dalla storia. Compresa da quella che ha sofferto il mio amato Libano»