di Catena Fiorello
La notte del primo novembre I murticeddri, picciriddi, stanotti venunu i murticeddri e vi portunu i regali. Nella notte tra l’uno e il due novembre i bimbi smaniavano per vedere quali doni avessero lasciato loro i murticeddri. Li mettevano di nascosto sotto i letti. File di lumini accesi, l’attesa fra contentezza e un pizzico di paura. Chi avrebbe bussato nel buio? Magie delle anime buone volate in cielo. Tornavano per portare felicità e l’aria profumava di biscotti. E i morti, dopo un po’, smettevano di fare paura, trasformandosi nei giochi felici
dell’indomani. Tutti facevano festa e davanti alle foto dei cari defunti ognuno aveva il cuore immerso in una dolcezza nostalgica. Questa è la scuola di vita nella quale sono cresciuta. Ogni primo novembre mio padre caricava l’auto di ogni bendidio e da Augusta si partiva alla volta di Letojanni, dove c’erano le tombe dei nostri cari. La nonna Catena ci aspettava con ansia, preparando cibi dell’antica tradizione culinaria. Erano giorni di festa, non di tristezza, e i bambini convivevano serenamente con l’idea della morte dei loro avi. Questa veniva esorcizzata da un’atmosfera lieta. Il muro che separava noi e loro diventava un’idea di ineluttabilità e naturalezza, spiegata con parole semplici.
La scrittrice Catena Fiorello, foto Ansa
Le giornate dedicate ai defunti cominciavano con il nostro arrivo in paese il primo novembre e si concludevano il tre, quando si tornava alla base. Fondamentale la tappa della visita al cimitero, quando gli adulti rendevano omaggio ai loro parenti e amici, mentre noi ci distraevamo con gli altri bambini: anche passeggiare fra i vialetti del camposanto diventava un’occasione di spensieratezza. I lumini accessi ci ispiravano pensieri gioiosi. Compresi i racconti che accompagnavano ogni foto osservata sulle lapidi. C’era lo zio della mamma, il vecchio nonno gran lavoratore, oppure qualche amico che in vita era stato un eroe, salvando tante vite in mare. Ma l’attesa più emozionante era riservata alla notte del primo novembre, quando i nostri murticeddri tornavano per portarci i regali. Ricordo che mia nonna in loro onore apparecchiava nuovamente la tavola dopo che avevamo cenato, per dargli ospitalità quando avrebbero fatto il loro ingresso. Né io né i miei fratelli avevamo paura di quelle visite, tuttavia, ci suscitavano un sacco di domande alle quali la nonna rispondeva senza indugio. E così apprendevamo che i murticeddri non dovevamo immaginarli alla stregua dei viventi. Loro erano fatti di spirito, folate d’aria lieve che ci girava intorno, ma sempre pronti a confortarci nei momenti difficili. E quante leccornie si potevano mangiare festeggiando il loro ricordo, custodite dentro il
cannistru, un cestino di paglia intrecciata che si usa ancora per ogni necessità casalinga. Al suo interno venivano sistemati ciuffi di frutta martorana, le “ossa di morto”, biscotti al sapore di cannella, e le rame di Napoli, altri biscotti a forma di esse, e ancora tanti dolcetti buonissimi. Nella zona di Palermo, comparivano i pupi di zucchero, e siccome alla nonna Catena piacevano tanto, li preparava volentieri. In altre parti della Sicilia si offriva invece la muffoletta, pagnottina calda appena sfornata che si cunza (condisce) con olio, sale, pepe, origano, filetti di acciuga sott’olio e qualche fettina di primosale. Insomma, potete capire che fra sacro e profano, la Festa dei morti per noi bambini siciliani era un evento indimenticabile. E lo è ancora, per fortuna. Ma su tutti vince la bellezza del legame indissolubile con i nostri cari defunti.
Foto di copertina Istock