Ci sono, sedimentate nel ricordo, esperienze che
lasciano tracce profonde, che si vorrebbe poter cancellare. Ma non si può,
non si deve. Heysel: per me la sola parola evoca sensazioni angosciose,
un disagio che riguarda la sfera della coscienza, l'aspetto umano. Sono
passati vent'anni da quella terribile notte in cui, per una partita di pallone,
ci furono 39 morti e un'infinita scia di dolore.
Confesso un costante senso
di imbarazzo quando vengo sollecitato a ricordare ciò che accadde, anche
perché, in piena buona fede, mi si chiede una testimonianza di carattere
professionale: quali difficoltà incontrai nel raccontare quella tragedia,
che problemi ebbi per comunicare nel modo meno traumatico la drammatica
realtà. E invece dentro di me è restato solo lo sgomento per l'assurda tragedia,
l'inaccettabile sensazione che ci fossero morti e feriti, lutti e lacrime
in un contesto che, nonostante la sovreccitazione che spesso caratterizza
il tifo sportivo, avrebbe dovuto essere di festa, di condivisione di un
momento ludico.
Certo, l'aspetto professionale non fu facile, anche perché
le notizie arrivavano in maniera contraddittoria e c'era l'ovvia esigenza
di comunicarle quasi centellinando il flusso informativo, nel tentativo
di preparare un po' alla volta quanti stavano ai teleschermi e magari avevano
parenti e amici in quello stadio, a una realtà che andava facendosi di momento
in momento più dolorosa. Ricordo, per esempio, quanto mi costò decidere
di non far parlare al microfono i pochi che, raggiunta la postazione, mi
chiedevano di poter far sapere ai parenti che erano vivi, che se l'erano
cavata: è stato molto duro vietare quel naturalissimo desiderio di tranquillizzare
mamme, mogli o amici; ma decisi, non so se a ragione o a torto, che se avessi
attivato quella specie di improvvisato e comunque parziale ponte radio-televisivo,
avrei involontariamente contribuito a gettare nella costernazione e nell'angoscia
le migliaia di mamme, mogli o amici cui non poteva pervenire alcun messaggio
personale rassicurante.
Molto poi mi colpì il racconto commosso di monsignor
Pierino Carnelli, indimenticato testimone della Chiesa nel mondo dello sport
professionistico: mentre la terribile serata volgeva ormai al termine, incontrò
l'allora presidente della Juventus Boniperti il quale, tra le lacrime, gli
confidò che, subito dopo il fatale crollo di quel muro, si era precipitato
tra i feriti e i moribondi e tutti gli chiedevano di trovare un prete, per
l'ultimo conforto. “E io non ho saputo trovarlo”, si rammaricava. Di quella
tragica notte molto si è parlato, spesso in termini di cruda ricostruzione
giornalistica. Sono state individuate responsabilità, formulate accuse di
ogni genere. Ma, ripeto, credo che sarebbe opportuno soprattutto utilizzare
quei dolorosissimi ricordi per comprendere come sia indispensabile accompagnare
la propria passione sportiva con il corredo della tolleranza, della buona
educazione, della consapevolezza che gli stadi sono luoghi a rischio.
Da
ultimo non posso non riferire un altro motivo di profonda amarezza: mi ero
convinto che l'enormità di quanto accaduto avrebbe, almeno per un po', indotto
i tifosi a comportamenti più riflessivi e maturi. Invece nulla cambiò, anzi
ci furono addirittura insopportabili strumentalizzazioni dettate dal mai
abbastanza deprecato “tifo contro”. Brutto da dire, doloroso da ricordare.
Ma dobbiamo comunque avere la forza e la costanza per urlare “mai più un
nuovo Heysel”.
Bruno Pizzul
La sala della memoria
28 maggio 2008