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martedì 24 giugno 2025
 
Addio al grande psichiatra
 

La lezione di Eugenio Borgna: «La parola buona salva il mondo»

04/12/2024  Pubblichiamo un'intervista realizzata nel 2017 al grande psichiatra, scomparso oggi. «Se nasce dal cuore, il linguaggio ha il potere di allargare i confini della speranza. Impariamo a usarlo in modo che crei relazioni di accoglienza»

«Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola», diceva la poetessa Emily Dickinson. Una verità tanto evidente, quanto dimenticata: con le parole possiamo «distruggere e creare» e «cambiare il mondo», insegnava il Buddha, eppure spesso le usiamo come se fossero dei semplici suoni neutri, privi di valore e “peso” specifico.

«Un peso che verifichiamo continuamente nella vita quotidiana e, ancor di più, nell’incontro con le persone più fragili», dice Eugenio Borgna, psichiatra di grande esperienza e sensibilità, che al tema ha dedicato un volume prezioso e utile, scientificamente rigoroso e al tempo stesso poetico: Le parole che ci salvano. «Sono importanti sia perché esprimono quello che noi sentiamo, sia quando cerchiamo di intuire le parole che gli altri desiderano ascoltare e possono comprendere, al di là del loro aspetto formale. Le parole ci consentono di entrare in relazione con noi stessi e con gli altri oppure ci impediscono di farlo».

È l’ambivalenza di fondo della parola, capace di salvare ma anche di ferire. «Alcuni oncologi sostengono che dalle parole con cui si espone la malattia ai pazienti dipende buona parte del loro effetto terapeutico», osserva Borgna. «Come sceglierle allora? Abbiamo voglia, abbiamo tempo nelle mille occasioni della vita di guardare dentro di noi? Se non affrontiamo questo cammino verso l’interiorità, non conosceremo noi stessi né gli altri. Se invece ci affidiamo alla nostra intimità e sappiamo scegliere parole che, prima di venire pronunciate, passano attraverso il cuore, esprimono le ragioni del cuore, allora “creiamo” parole che salvano, allargando i confini della speranza e restringendo quelli della disperazione. Soltanto all’interno di questa dialettica fra chi parla e chi ascolta si può scrivere un vocabolario salvifico. Il nostro linguaggio deve essere continuamente rinnovato dalle risposte delle persone che incontriamo: qui contano le parole, certo, ma anche la capacità di valutare quando è preferibile l’ascolto silenzioso e accompagnare la parola con lo sguardo verso l’altro».

Esiste dunque una “responsabilità della parola” che, una volta pronunciata, se ne va in giro per il mondo a produrre i suoi effetti... «Anche se le enunciamo con leggerezza, le parole costituiscono le vie attraverso le quali riveliamo il nostro volto al volto degli altri. Affinché passino prima attraverso il vaglio del cuore – vale a dire della sincerità, della fiducia – per testimoniare all’altro quello che noi siamo, occorre che si radichino nella memoria di ciò che è stato, quindi nel passato della nostra esperienza. Oltre che dalla volontà di una conoscenza reciproca, le parole che salvano sono ispirate dalla volontà di aiutare l’altro, in particolare quando vive una situazione di difcoltà. In questo caso, la persona è estremamente sensibile alle sfumature delle parole che usiamo».

È evidente che il termine parola trascende il significato puramente lessicale, indica un atteggiamento, implica un linguaggio non verbale. «La parola scelta in sé ha un grande valore, ma il suo signicato comunicativo cambia nel momento stesso in cui entriamo in relazione con l’altro. Fuori dal contesto della relazione, le parole possono rivelarsi inutili, inef- caci: quanto più siamo disponibili a rivivere e accogliere i sentimenti e le emozioni dell’altro, tanto più il suo mistero si chiarisce. La parola è camaleontica, cambia radicalmente il suo signicato in base ai contesti e in questo senso il gesto diventa essenziale».

Oggi la parola è diventata protagonista dei social media e in Internet... «Se non è ricevuta in un contesto relazionale che consenta di assumerne tutti i suoi complessi e fragili significati, la parola si frantuma, si spezza. Tenere presente il contenuto informativo e il contesto emozionale in cui la parola viene immessa, è più difficile e complesso allorché viene meno la presenza contestuale di chi ascolta e interroga sul signicato. Si riducono l’attenzione e la circospezione necessarie affinché la parola mantenga la sua autenticità e creatività, mentre si intensifica la pressione mistificatoria. Proprio per come sono strutturati, i canali di comunicazione digitali esigerebbero una consapevolezza ancora più acuta e un’attenzione altissima alla dimensione etica».

La nostra epoca soffre di eccesso o di carenza di parole? «Di eccesso di parole dette a sproposito, gettate nella mischia quando servirebbe il silenzio; dall’altra parte anche di carenza, perché parlare significa mettersi in discussione, portare alla luce sentimenti ed emozioni».

C’è anche una Parola con la maiuscola, i testi sacri... «È la parola che si nutre di preghiera, di speranza, di fede… Una parola immersa nel mistero. Se le nostre parole si confrontassero di più con quelle, certo scarne, ma di luce abbagliante del Vangelo, allora tutte le costruzioni psicologiche che abbiamo analizzato non sarebbero nemmeno necessarie».

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