A Ventimiglia, ultimo comune italiano prima di arrivare in Francia, la libertà del mare che lo costeggia contraddice la chiusura della frontiera. Qui, da mesi ormai, persone di ogni dove, ma sempre in fuga da Paesi di guerra, fame o povertà, passano con la speranza, nel tentativo di andare in Francia. Numeri che fanno impressione, se secondo la Croce Rossa quest'anno sono già passati il doppio dei profughi del 2015 nello stesso periodo.
Un paese abituato alla migrazione, aperto, solidale e paziente. Una strada principale, via Roma che, caso vuole, parte dalla stazione dei treni e passa davanti al Municipio, al Comando dei carabinieri prima di arrivare alla parrocchia di San Nicola di Tolentino, ultima tappa di questo percorso, la più accogliente.
I primissimi momenti dell'accoglienza. Ora i 550 immigrati africani sono stati sistemati nella parrocchia di Sant'Antonio di Roverino.
Quando arriviamo padre Francesco Marcoaldi, frate della congregazione Figli di Maria Immacolata, missionario per vocazione con 37 anni nel sud del mondo e parroco a Ventimiglia dall'ottobre del 2015, con scopa e paletta sta pulendo per terra le ultime tracce rimaste del passaggio di 200 ragazzi ripartiti la mattina stessa dopo aver sostato lì per due notti.
Lui non trova eccezionale ciò che ha fatto: «È stato un gesto naturale di umanità. Avevano bisogno, sono venuti a bussare e io ho aperto e li ho ospitati con la promessa di aiutarli finché non avessero trovato una collocazione migliore». E così è stato. Ragazzi, che vivevano sulla spiaggia, lungo il fiume o sotto qualche ponte.
«Qui in Ventimiglia non c'è un campo di raccolta di questa gente che così è andata dove poteva. Domenica sera alle 19.30 ho trovato questo gruppo nel cortile della chiesa che chiedeva ospitalità dopo essere stati sgomberati. Nigeriani, somali, tutti africani; dalla Costa d'Avorio, dal Ciad. Ragazzi giovani, tra loro solo una donna. Molti minorenni. Parlare con loro è stato difficile: scappano dalla guerra, dalla fame, dalle difficoltà con la speranza di trovare un luogo dove progettare il loro futuro. Uno dei ragazzi, prima di andare via, mi ha abbracciato e mi ha ringraziato per averlo ospitato. In realtà per aprire le porte in questi casi basta il buon cuore».
E il benestare del Vescovo, monsignor Antonio Suetta, che ha applaudito alla scelta del parroco e si è subito messo in moto per aiutare a individuare spazi possibili di accoglienza. Tanto da proporre di allestire una tendopoli nel campo del seminario di Bordighera, ipotesi che poi è sfumata per le difficoltà logistiche di trasferimento. Mons. Suetta non ha dubbi sull'atteggiamento da tenere: «Lo dice il Papa: aprire le porte. Creare ponti e non muri. Vogliamo come prima cosa avvicinarli come uomini, accoglierli come cristiani nel loro diritto di vita buona abbracciandone i drammi, le ingiustizie, i dolori e le perdite».
Momenti di tensione che si erano creati nelle scorse settimane per la volontà dei migranti di passare il confine con la Francia.
Lui i ragazzi li ha avvicinati e si è sempre tenuto in contatto con padre Francesco per sapere come andava e come stessero. «Mi colpisce la loro fragilità che si manifesta come stanchezza fisica e psicologica, ma che non prevale sulla speranza. Talvolta non capendo bene cosa succede hanno l'illusione di essere arrivati alla meta. Per questo sento una profonda ingiustizia nel fargli percepire un muro. Bisogna accompagnarli. Dobbiamo fargli capire che sono arrivati in mezzo a persone che vogliono loro bene».
E non si rassegna, con il suo passato di solidarietà prima che papa Francesco due anni fa lo facesse Vescovo di Ventimiglia. «Mi è impossibile comprendere la chiusura netta. Credo che qui, come in famiglia, il condividere e infilarsi nella camicia degli altri aiuti a trovare la soluzione giusta molto più che mettendosi a tavolino. E voglio dire una cosa a chi ha paura di questi ragazzi: queste non sono invasioni; le nostre da loro lo sono state, ma noi abbiamo invaso “con i guanti bianchi”, senza fare rumore».
Condivide le parole del sindaco di Parigi, Anne Hidalgo, che ha parlato di «omesso soccorso» per chi non aiuta. «Noi abbiamo condizioni di vita buone, da un punto di vista umano siamo in debito, da qui l'obbligo di un impegno concreto di dare aiuto a chi è meno fortunato soprattutto quando le circostanze si manifestano come emergenze.
Mi meraviglio che non sappiamo riconoscere l'urgenza di tendere la mano a chi rischia di soccombere».
E sottoscrive quelle di Nunzio Galantino, segretario della Cei, che ha detto che questi morti in mare, più di mille in una settimana, sono uno schiaffo alle democrazie europee. «Io sono convinto che un'Europa chiusa egoisticamente nel suo benessere e nei problemi che questo comporta (c'è chi sta male perché non ha mangiato e chi perché ha mangiato troppo) crei situazioni involute negative per le persone che lascia al di là del muro ma anche per quelle che si nascondono al di qua del muro. Il Papa lo ha ricordato più volte, così Benedetto XVI e Giovanni Paolo II: la civiltà europea è vecchia e stanca. Perché, anziché guardare a un futuro denso di valori e aperto alla vita, corre il rischio di ripiegarsi su sé stessa. In questo senso le parole del Papa che i migranti sono un dono (oltre al fatto che ogni persona è un dono) credo siano vere perché la loro presenza, la loro necessità e anche la storia di ingiustizia, sfruttamento e persecuzione diventano monito e stimolo per la nostra società
per non dimenticare che molte situazioni di guerra, ingiustizia e povertà da cui sfuggono sono riconducibili a schemi e comportamenti, politiche sbagliate del nostro mondo. Le famose invasioni con i guanti bianchi».
Maurizio Marmo, direttore della Caritas diocesana, parla con alcuni migranti.
Oggi quegli stessi ragazzi accolti da padre Francesco, dopo aver tentato di raggiungere il confine ed essere stati fermati dalla polizia, grazie alla negoziazione della Caritas diocesana, sono stati trasferiti nella parrocchia di Sant'Antonio di Roverino, poche centinaia di metri più in là.
Faty e Machì, entrambi del Sudan, 28 e 24 anni, sono scappati dalla guerra e, dopo 17 giorni di viaggio, vorrebbero andare in Francia. Grazie a questa esperienza sono diventati amici. Del loro futuro nessuna certezza, ma «certo qui c'è la volontà di conoscerli, capire le loro speranze e guidarli nelle scelte», spiega il direttore della Caritas Maurizio Marmo. Lui che ha voluto ribattezzare questa emergenza “Ventimiglia con-fine solidale” per trasformare un limite in un'opportunità.