la copertina di Jesus (6/1988) con l'intervista a Marco Cè
S'intitolava "Il vescovo schiavo di tutti" l'intervista esclusiva che il cardinal Marco Cè concesse al mensile Jesus nel giugno del 1988, quand'era patriarca di Venezia. Rimane uno dei suoi rarissimi interventi sui media nazionali. In essa il cardinale, mancato il 12 maggio scorso, sintetizza nella frase paolina "farsi tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno" l'atteggiamento di fondo che deve guidare un pastore verso la sua diocesi. A distanza di 25 anni, illuminanti e profetiche risultano le sue affermazioni su parrocchia, "laboratorio" dell'inculturazione della fede, e i movimenti ecclesiali.
Ecco il testo:
"Riservato e restio ai clamori della cronaca, consapevole che la sua parola ha l'autorevolezza del pastore di una grande Chiesa, Marco Cè, patriarca di Venezia e vicepresidente della Cei, offre, nell'intervista rilasciata a Jesus, una lettura della realtà della sua diocesi. A tratti le sue parole si fanno sermone, a tratti catechesi. Ne esce l'immagine di un vescovo che sa gioire e sa soffrire con la sua Chiesa. Nelle difficoltà si legge sempre l'invito alla speranza, nella complessità della situazione lo sguardo sereno di chi vede la storia con gli occhi dell'E vangelo.
- Lei ha appena finito la visita pastorale.Quale impressione ne ha tratta?
«È stata la mia prima visita pastorale e si è protratta per sei anni: buona parte del mio servizio episcopale a Venezia! Ho percorso, a una a una, tutte le parrocchie, anche le più piccole, incontrando catechisti, consiglieri pastorali, gruppi di coniugi, genitori dei ragazzi del catechismo, sempre i giovani, visitando gli ammalati nelle loro case, predicando in tutte le eucaristie... Un'affascinante esperienza di "missionarietà". Ho visto comunità vive, realtà ricche di fermenti evangelici, tanti segni della presenza operante dello Spirito. Mi sono anche confrontato con una situazione difficile. Venezia, col suo territorio, è un crocevia di culture; ogni giorno è premuta da realtà che non possono non segnarla in profondità, trasformando la mentalità e i comportamenti. Sul piano pastorale la risposta più pertinente e tempestiva è una "nuova evangelizzazione". L'espressione è del Papa e mi sembra particolarmente calibrata sulla situazione veneziana. Evidentemente i primi destinatari sono gli adulti. È la direzione nella quale ci si sta muovendo ed è l'orizzonte che qualifica lo sforzo di catechesi, dentro e fuori le strutture normali, spingendo a collocarla anche nelle case. Oltre alla catechesi vera e propria, nell'ottica indicata, ci si muove nella linea degli itinerari di fede, valorizzando soprattutto l'anno liturgico, e in quella di un più esigente coinvolgimento dei genitori e delle comunità nel cammino di iniziazione cristiana dei ragazzi».
- Quali sono i problemi essenziali della Chiesa veneziana?
«Mi sarebbe facile rispondere elencando l'uno dopo l'altro tutti i nodi che il nostro tempo pone per la vita del credente, sia del singolo, sia della comunità. In questo la diocesi di Venezia ha molte cose in comune con tutte le altre. Preferisco soffermarmi sulla peculiarità della Chiesa di Venezia, la quale da un lato per il suo territorio è una delle zone più turistiche d'Italia, dall'altro come città storica è uno dei luoghi immortali di cultura, infine, per la concentrazione industriale di Marghera, è singolarmente sottoposta a successive ondate di mentalità diverse, che premono massivamente sul costume della gente. Radicata storicamente e geograficamente nel Veneto, la Chiesa di Venezia ha una sua tipicità inconfondibile, per cui la comprensione del "cambiamento" e la "nuova evangelizzazione" sono particolarmente urgenti. La possibilità di annunciare il Vangelo a milioni di persone, che qui approdano, anche con il linguaggio dell'arte cristiana presente a Venezia, in misura e qualità senza uguali, diventa per la comunità una grande responsabilità. Essa deve confrontarsi con la realtà industriale di Marghera, in profonda trasformazione, e mentre la città storica va invecchiando e spopolandosi. Al di là del ponte, la città di Mestre, sorta tumultuosamente in pochi decenni, non ha ancora trovato una sua "temperatura" unitaria e culturale, però è vivace, attivissima e grintosa. Nel magma di queste situazioni i problemi di evangelizzazione, di. presenza e partecipazione ai problemi dell'uomo sono immensi e lo sforzo di adeguamento della struttura -pastorale diventa faticoso e molto impegnativo».
- Venendo a parlare di una situazione più generale della Chiesa italiana, non ritiene che la parrocchia sia sempre meno importante di fronte a movimenti, gruppi, associazioni?
«A mio avviso parrocchia e movimenti, gruppi e associazioni, non sono alternativi, almeno nella situazione italiana dove la parrocchia ha una lunghissima tradizione di efficacia pastorale e rappresenta la struttura portante dell'organizzazione ecclesiale. Sull'importanza della parrocchia io credo non si insista mai abbastanza. Io ne ho fatto l'oggetto del mio intervento al Sinodo. Un vescovo statunitense (quello di Saint Louis, ndr) ha ricordato che in quel Paese la consultazione presinodale ha segnalato la parrocchia come il luogo, dopo la famiglia, la gente fa esperienza della presenza di Dio. Non c'è da stupirsi: la parrocchia è il luogo privilegiato dove la Chiesa esprime il suo essere fra gli uomini, segno e strumento della salvezza di Cristo. E questo a favore di tutti, a partire da coloro che, di fatto, non dispongono di altri mezzi e possibilità, quali l'appartenenza a gruppi, movimenti, associazioni. La parrocchia, almeno da noi, esprime l'ethos profondo della gente e la sua tradizione storica; è il radicamento capillare della comunità cristiana nel territorio: ne vive i problemi, fa incontrare le persone e spesso rimane riferimento affettivo anche per i non praticanti; generalmente costituisce, anche sul piano civile, la più forte realtà aggregativa».
- In che modo questo inserimento nel quotidiano "rilancia" la parrocchia come soluzione ai problemi che la Chiesa deve affrontare oggi?
«Le farò alcuni esempi: oggi si parla molto di "missionarietà". Io credo che la parrocchia possa essere il centro propulsore della missionarietà. Proprio perché è "il luogo del battesimo" («tutti là sono nati», potremmo dire col salmo), è anche il punto di partenza per la missione negli spazi del vasto mondo, nei luoghi dell'esistere concreto degli uomini, da quelli più umili ai più sofisticati, in cui deve svolgersi la "nuova evangelizzazione" oggi. Ancora: da molte parti si segnala l'importanza di rivalutare la religiosità popolare. La parrocchia, proprio perché inserita nell'ambiente e nel quotidiano, può diventare l'occasione privilegiata per accogliere, qualificare ed esprimere quanto vi è di positivo nella religiosità popolare, facendola maturare nella fede autentica. Infine: oggi si sente molto l'urgenza della "inculturazione" della fede, del suo inserimento vivo e vitale nella mentalità e nelle prospettive degli uomini del nostro ' tempo. La parrocchia può diventare il "laboratorio", umile e quotidiano, dell'inculturazione della fede. Questa deve cominciare proprio nella vita "quotidiana" del cristiano, sostenuta dalla grazia di cui la parrocchia è come l'umile "paniere", offerto a tutti dalla Chiesa; e alla parrocchia si deve tornare, per confrontarsi con la fede dei fratelli, con la riflessione teologica e culturale, illuminata dal magistero ecclesiale».
- Allora è sufficiente la parrocchia? Possiamo fare a meno dei vari movimenti e gruppi?
«Non intendo dire questo. Anche al Sinodo il mio discorso sulla parrocchia non intendeva essere né esclusivo né polemico. Capire l'importanza della parrocchia non significa dire che basti da sola. Come vi sono state, nel passato, ragioni e istanze che hanno motivato la nascita dell'associazionismo, quale l'Azione Cattolica, lo scoutismo, ecc, così vi possono essere oggi nuove domande e realtà che sostengono il formarsi di esperienze ecclesiali e pastorali, legate alle nuove istanze dell'evangelizzazione».
- Lei pensa, allora, ad una pastorale che corre su due binari: il binario delle parrocchie e il binario di movimenti, gruppi, associazioni?
«L'esempio dei due binari è fuorviante. L'idea fondamentale è la sintesi delle diversità, più che la giustapposizione. In termini più ecclesiali: legge di vita della comunità cristiana è l'accoglienza vicendevole dei doni dello Spirito, se tali sono riconosciuti. Essi non vanno mai pregiudizialmente esclusi, ma docilmente attesi e considerati. Ci ammonisce san Paolo: «Non spegnete lo Spirito... esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono». So bene che tra parrocchie, da una parte, e movimenti e gruppi, dall'altra, i rapporti non sono sempre facili. Ma sono difficoltà da superare. Le parrocchie possono e devono offrire a queste realtà spazi e momenti di accoglienza e riconoscimento. I campi della nuova evangelizzazione sono immensi e richiedono varietà e complementarietà di presenze e di modi. Inoltre oggi emerge sempre più l'urgenza di sviluppare una nuova e più dinamica comprensione della presenza dei cristiani laici nel territorio, che porta a cercare più solidi legami di comunicazione, coordinamento pastorale e modi più tempestivi di testimonianza. Si creeranno così ambiti di comunione ecclesiale all'interno dei quali troveranno il loro naturale spazio i vari gruppi, movimenti, associazioni. Essi non potranno sottrarsi al dovere della collaborazione e del dialogo fraterno, sotto il discernimento e la guida dei pastori, in vista dell'annuncio del Vangelo».
- A proposito del rapporto "Chiesa eproblemi dell'attualità", i cattolici veneti si sono distinti ultimamente in iniziative pacifiste e ambientaliste, che hanno anche sollevato pesanti critiche da partedi politici laici: troppa esuberanza ogiusta sensibilità?
«II Triveneto (uso questa espressione perché a livello ecclesiale le tre regioni sono strutturalmente legate) è una realtà che, per la sua storia e la sua stessa geografia, è molto articolata e ricca. Altre regioni sono strutturalmente più tranquille. Di fronte all'esplodere di tante iniziative occorre discernimento, sforzo di comprensione e paziente attesa. I vescovi hanno dato un loro contributo di riflessione, per un giudizio maturo, con un documento sulla pace, in preparazione all'incontro di Assisi del 27 ottobre 1986».
- Quale potrebbe essere un giudizio profetico sulle questioni sollevate dai pacifisti?
«Intendiamoci innanzitutto sull'aggettivo "profetico": profeta è colui che legge la presenza attiva di Dio nella storia degli uomini e sa coglierne la direzione, che è sempre la salvezza.Certamente oggi il Signore sta suscitando nelle coscienze una volontà di pace e un rifiuto della guerra, quali non ci sono mai stati nel passato. Questo è un segno della presenza di Dio nella storia. Certo, non basta fermarsi qui; occorre trarre le conseguenze operative e fare scelte concrete... E qui incomincia la problematicità e l'opzionalità. La difficoltà del cammino non deve però rintanarci nell'inerzia. Bisogna accettare la fatica della ricerca, dei tentativi parziali. La strada giusta è sempre frutto di molta fatica.Come pastore d'anime io non posso eludere un altro discorso. Il problema della pace non è solo questione di scelte politiche, con cui comunque -previo l'indispensabile discernimento - è necessario compromettersi: è un problema che investe l'uomo come tale, e ci rinvia al male e alla ribellione a Dio, che attraversano la storia del l'uomo. È nel male l'origine di ogni divisione, della frattura che attraversa l'io singolo, delle barriere che separano la collettività umana. La questione seria circa là pace è, allora, il problema del male e di come se ne possa guarire. In questo senso il Vangelo col suo messaggio sul regno di Dio è giudizio sulla storia ed è impareggiabile scuola di pace».
- Non le pare che questo discorso sia comprensibile e limitato ai credenti?
«No, perché la consapevolezza del male, e di un male radicale, è diffusa anche lungo tutta la storia della riflessione laica. La riflessione credente conosce un "di più", sia circa il male, sia circa la salvezza, ma è certo che anche la più acuta riflessione "laica" non pretende davvero di disfarsi di questi temi». - A chi chiede "pace" lei risponde"santità".
- Non le pare di esigere troppo?
«Certo, io parlo da credente e propongo ciò che a mia volta ho ricevuto. Se parlo di santità parlo però di una santità incorporata in precise scelte storiche, che implicano assunzioni di responsabilità personali, sociali e politiche. Sono, però, consapevole di chiamare ad una prospettiva radicale, ultima, che accetta la fatica e i limiti della ricerca e della realizzazione storica, che fa i conti con le legittime esigenze della realtà politica e statuale. Il giudizio profetico è apertura di prospettiva, messa in tensione delle coscienze e della realtà, non un sogno, una irreale fuga in avanti. Per questo è un giudizio "difficile" per tutti. Difficile per chi ne è capace, in quanto mette nella scomoda situazione di vedere la realtà presente e di viverla giorno per giorno alla luce di una possibile realtà diversa, facendo quindi la figura del "visionario", del "folle". Difficile per chi lo ascolta, e cerca di comprenderlo, perché chiama alla fatica, all'insoddisfazione continua per quello che si è, per quello che si fa, anche in quanto c'è di positivo».
- In una realtà ecclesiale e culturale sempre pia complessa e varia come Venezia, quali ritiene debbano essere gli atteggiamenti di fondo di un vescovo?
«E impossibile isolare il vescovo dalla sua Chiesa, perciò più che di atteggiamenti di fondo del vescovo, preferirei parlare di atteggiamenti della mia Chiesa. Ne indicherei tre. Innanzitutto l'attenzione a capire, ad avere intelligenza della realtà in cui si è chiamati ad annunciare il Vangelo. Certamente la realtà veneziana - come ho già rilevato - è complessa; storicamente, geograficamente e culturalmente articolata; se "il cambiamento" caratterizza tutte le Chiese italiane oggi, la comunità ecclesiale veneziana vi è forse più esposta di altre. La tentazione è la pregiudiziale chiusura, se non proprio il rifiuto. E inveceoccorre attenzione a capire, impegno illuminato a discernere, capacità di cogliere tutte le sintonie col bene di cui ogni fenomeno storico è portatore. Non dico che sia facile. Come secondo atteggiamento, mi pare di poter evidenziare la disponibilità a condividere. Il vescovo esercita, fra gli altri, il ministero della "compagnia", della condivisione, del "fare strada insieme" anche perché, se il vescovo da uri po' del proprio volto alla sua Chiesa, questa, a sua volta. Io intride di sé e lo plasma. Forse è meglio concretizzare. Estremamente illuminante è stata per me l'esperienza della visita pastorale: un lungo cammino di "compagnia" con la comunità; ascoltando, sforzandomi di comprendere situazioni e persone, dando fiducia, sostenendo e consolando, spingendo anche verso strade nuove. Ma anche la pastorale quotidiana è "compagnia", itinerario coi suoi momenti di riconoscimento e di missione. Tale è, per esempio, l'annuale "mandato dei catechisti", un appuntamento irrinunciabile, che fa parte della traditio fidei della nostra Chiesa, entrato ormai nel nostro calendario liturgico. Una festa della fede: il vescovo la consegna ai catechisti, perché a loro volta la consegnino a coloro che sono in cammino verso il Signore: la fede dei padri, sigillata dal martirio dell'evangelista Marco, nostro protettore, e narrata dai mosaici della nostra cattedrale... L'immagine della "compagnia" mi rinvia anche a quanto si sta facendo per consegnare alle coppie di sposi il senso cristiano della famiglia e sostenerle in esso; e alla pastorale giovanile, concepita proprio come un cammino con i giovani, per la riscoperta della fede. Un cammino fatto insieme: il vescovo che annuncia e si sforza di capire, i giovani che provocano vescovo e comunità, con le loro domande di senso, di autenticità e di chiarezza. Mi rinvia infine agli "ultimi", come oggi si suole dire: i poveri, i senza tetto, gli ex carcerati ed ex mani-comiali, i tossicodipendenti, gli anziani soli, i disabili fisici e psichici. Numerose iniziative, a Venezia e in terra-ferma, dimostrano questo impegno di "compagnia" con i piccoli. Un debito -dobbiamo ammetterlo - ben lontano dall'essere pagato».
- E il terzo atteggiamento?
«Riassume e sintetizza in un'unica prospettiva l'attenzione a capire e la disponibilità a condividere. Il vescovo non può che accogliere l'invito di Paolo: "Farsi tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno". Non è un atteggiamento facile: chiama alla disponibilità incondizionata alla causa del Vangelo. Per l'apostolo, e quindi per il vescovo, non è possibile separare la propria salvezza dalla propria missione. Egli si salva annunciando il Vangelo, facendosi "schiavo" di tutti».
Alberto Laggia e Luciano Scalettari