Il cielo plumbeo, bluastro, velato dalla luna. Lo sguardo scende. Le sagome degli alberi e, in mezzo alla bruma, un uomo che bisbiglia verso l’alto. La lingua č arcaica, aspra. Altri tre uomini giacciono addormentati. Poi, fiaccole che si fanno strada nell’oscurità. Uomini armati di spade. Il bacio. Il tradimento. La colluttazione.
Ci sembra pù giusto cominciare a parlare di La Passione di Cristo con la suggestione delle immagini, prima che ricordando le polemiche che lo accolsero all'uscita. Perché Mel Gibson (autore, produttore e regista del film che esordì il 7 aprile in 500 sale italiane) è uno che sa fare cinema. Ed è credente. A modo suo, forse. Ma chi lo conosce lo dice sincero. Solo un divo come lui poteva imbarcarsi in tale impresa: portare ancora sullo schermo la storia di Gesů, catturando il cuore degli spettatori con attori che recitano in aramaico e latino. Pazzesco. O geniale.
Il suo merito è nel proporre il grande cinema riportando d’attualità un tema, il messaggio datoci da Gesů col suo sacrificio, che pareva oggi desueto. La cinepresa squarcia il velo del tempo e ci precipita nel Giardino degli Ulivi. Senza preamboli o spiegazioni. Cronaca. Tutti, d’altronde, conosciamo la storia. Anche se cosě non l’abbiamo mai vista.
«Da tanto volevo fare questo film», spiega Gibson; «12 anni fa ho vissuto un momento di grande crisi. Ero arrivato a un tale livello di miseria interiore che ho sentito di dovermi fermare. Grazie alla fede, e in specie all’immagine della Passione, ho ritrovato la mia strada».
Personale la genesi del film. Come personale è la visione, iperrealistica, delle torture subite da Gesů. Dal primo colpo di frusta all’ultimo respiro sulla croce, un’orgia di sangue e di dolore. Un vero martirio. Necessaria tanta violenza?
«C’è chi sostiene che Gesù abbia ricevuto solo 39 frustate, ma sono state di piů», dice il regista, 48 anni, studioso di testi sacri. «I segni lasciati sulla Sindone dimostrano che non c’era più pelle sul corpo di quell’uomo. È questa l’immagine di Cristo in cui credo. Commuove pensare fino a che punto sia stato capace di arrivare per amore dell’umanitŕ».
Gibson ha fatto centro. Almeno a giudicare dall’eco delle polemiche che fecero seguito all'uscita del film. E dai numeri: costato 25 milioni di dollari, La Passione di Cristo solo Oltreoceano ne ha incassò 228.
Il fascino visivo della pellicola è straordinario. L’aspro confronto del prigioniero coi sacerdoti del Sinedrio. L’incertezza di Ponzio Pilato. La dissolutezza di Erode. La fustigazione selvaggia di Gesů fatta dai soldatacci romani. La folla che preferisce l’assassino Barabba. La straziante salita al Golgota. Gesů che cade roteando lo sguardo. I flashback, inseriti con sapienza, con cui Gibson parte da un particolare (un calzare, una bacinella) per rievocare momenti della vita di Gesů. Un’escalation di violenza e di dolore. Fino ai chiodi che penetrano le carni di Cristo giŕ agonizzante. Urla l’anima. Le labbra si serrano. Le immagini sono virate color seppia. Un rosso terrigno e soffocante. Le voci, in latino e aramaico, colpiscono ben oltre: quasi inutili i sottotitoli. Lo scempio pretende cuore e stomaco forti. Cristo finalmente muore. E risorge.
Non altrettanto facile è per lo spettatore riprendersi. Il cuore va a mille. Merito delle scenografie di Francesco Frigeri (ricreate tra Matera, dove Pasolini girò il Vangelo secondo Matteo, e Cinecittà), dei costumi di Maurizio Millenotti. E degli interpreti. Gli italiani sono Mattia Sbragia, Sergio Rubini, Monica Bellucci, Luca Lionello, Claudia Gerini, Toni Bertorelli, Sabrina Impacciatore: tutti bravi oltre l’immaginabile. Poi il bulgaro Hristo Shopov, Pilato, e la rumena Maia Morgenstern, umanissima Maria. Fino all’americano Jim Caviezel, forse il piů intenso Gesů dello schermo. Ruolo non piccolo, poi, quello di Rosalinda Celentano, ambiguo Satana tentatore, presenza immanente che sembra poter assolvere il film dall’accusa di antisemitismo: tutti, ebrei e romani, paiono strumenti di un disegno superiore. È l’intero genere umano che deve vergognarsi. «Il mio film aderisce alle Scritture», ribatte Gibson. «La mia interpretazione si rivela solo in certi dettagli: i Vangeli, ad esempio, non parlano di Maria che asciuga a terra il sangue di suo figlio».
E le polemiche? «Politica, soldi, egoismo oscurano il vero significato della religione», accusa Mel. «Credere dovrebbe voler dire fede, amore, perdono. Solo modo per eliminare tutto il marciume č tornare al messaggio originario».
E le contestate parole di Caifa, che invoca la maledizione sugli ebrei di fronte al Cristo morente? «Antisemitismo č l’aggressione deliberata verso gli ebrei in quanto tali. Una colpa, per la mia fede», puntualizza Gibson. «Io credo nei Vangeli. Il mio film č solo sul sacrificio di Gesů. Noi l’abbiamo ammazzato!».
Malgrado tanto sangue, l’immagine che resta piů negli occhi è un flashback della Vergine: vede il figlio martoriato cedere sotto il peso della croce e le ritorna in mente quando, da bambino, era caduto e lei era corsa a soccorrerlo. Impossibile trattenere una lacrima.