Ci siamo di nuovo. I fatti di Bruxelles ci lasciano sgomenti e ci portano a vivere ( questo vale soprattutto per noi che non eravamo lì dove è scoppiato l’inferno, dove la gente si è trovata faccia a faccia con il dolore, la morte, l’atrocità della malvagità figlia dell’integralismo ideologico) un processo di traumatizzazione collettiva “indiretta” legata alla sensazione di paura, allarme e vulnerabilità, elementi introiettati dalle persone dopo un evento che non le ha coinvolte in prima persona ma che lascia dentro di loro un vissuto di impotenza e vittimizzazione. Ed è questa traumatizzazione quella che più produce un impatto su molti minori, i nostri figli e i nostri studenti. Perché gli eventi avversi di cui ricevono notizia e che spaventano i loro adulti di riferimento, ricadono in modo diretto sulla loro percezione del mondo e rischiano di generare in loro una serie di false credenze che possono limitare la loro fiducia negli altri e il loro desiderio e potenzialità di esplorazione del mondo e della vita.
Insieme a Edgar Morin, Riccardo Mazzeo, Marco Montanari ho collaborato ad un libro curato da Dario Ianes “Come parlare di Isis ai bambini” (Erickson). In questo libro io, tra gli altri temi, approfondisco alcuni esempi di false credenze che possono interessare i bambini e gli adolescenti dopo eventi così tragici che ricevono un’attenzione mediatica intensissima. Queste false credenze possono però essere modificate in modo significativo dall’intervento educativo degli adulti e dai messaggi di prevenzione e promozione del benessere che gli adulti possono sostenere.
La prima falsa credenza su cui vi invito a riflettere è quella che porta tutti noi a generalizzare il concetto che il mondo è un luogo pericoloso in cui vivere. I bambini - in particolare - non riescono a utilizzare il criterio della localizzazione geografica e a comprendere le distanze. E’ importante aiutare i più piccoli ad osservare come e perché, anche dopo fatti così tragici, la loro comunità continui a rappresentare un luogo sicuro per la loro crescita, aiutandoli a stare in un principio di realtà che non soccombe alla strategia della paura, quella paura che gli stessi terroristi vorrebbero diffondere a macchia d’olio nel mondo.
Un’altra falsa credenza che rischia di fare male a tutti, in particolare ai bambini, è che “tutte le persone che appartengono alla razza, alla religione o alla nazione dei terroristi sono pericolose e vogliono farci del male”. I terroristi rappresentano una frangia molto marginale di un popolo che in essi, nelle loro dichiarazioni, nelle loro strategie di intervento non si riconosce. “Not in my name” hanno dichiarato in molte manifestazioni pubbliche tanti musulmani perfettamente integrati nella rete sociale della nazione in cui si sono inseriti. E in realtà, l’adulto è una guida fondamentale per aiutare il bambino a riconoscere in ogni persona che vive al suo fianco un fratello e un amico, non un nemico o una persona pericolosa dalla quale doversi difendere.
E’ questo l’obiettivo a cui mirano molti progetti di promozione dell’integrazione e dell’interculturalità ed è questo principio che spesso ai bambini, molto più liberi da pregiudizi e stereotipi culturali, riesce più facile applicare rispetto agli adulti che vivono al loro fianco. Purtroppo la stessa globalizzazione che porta nelle case di tutti le immagini delle tragedie e delle stragi, porta anche immagini, parole e manifestazioni di potente odio xenofobo e razziale, spesso “predicato e agito” da soggetti molto in vista all’interno della comunità politica e culturale di riferimento. Gli adulti hanno la responsabilità di proporre ai minori la migliore visione del mondo possibile, non basata su un’ingenua accettazione di tutto, bensì fondata su una concezione dell’uomo orientata alla dignità, alla promozione della vita e della persona, senza differenze di etnia, religione, orientamento sessuale, nazione di provenienza. Ogni cosa sbagliata che viene fatta è da condannare e perseguire, ma chi sbaglia è sempre il soggetto che si rende responsabile del proprio reato, mai il credo, la nazione, la fede per cui dice di fare le cose. Questo principio è alla base della democrazia, del rispetto tra le persone, della convivenza civile tra popoli e nazioni e questo principio deve essere alla base di ogni intervento educativo di cui ci facciamo portatori.
La cosa più importante è aiutare i nostri figli a non aderire alla credenza, così spesso raccontata dagli adulti di riferimento, che “il domani e il futuro fanno paura e che le cose andranno sempre peggio e saranno senza speranza”. A noi adulti capita spesso di dire: che mondo è mai quello in cui facciamo crescere i nostri figli? Non ci si può fidare più di nulla e nessuno e nel futuro tutto andrà solo peggio. Guerre, morti, stragi: tutto potrà arrivare, tutto potrà farci male e portare distruzione. La visione catastrofica del futuro è una dimensione che spesso gli adulti restituiscono a chi sta crescendo, come un dato di fatto, come un elemento imprescindibile che connoterà il loro percorso di crescita. Complice anche la crisi economica che su scala globale ha interessato il mondo negli ultimi anni, la visione di un futuro senza speranza, senza opportunità, senza spazi di realizzazione di sé e di fiducia nella vita e nelle sue potenzialità è stato spesso lo scenario di riferimento per il domani che viene proposto e raccontato ai minori. Ma questo significa uccidere la speranza, che tra tutti i diritti dei bambini, è forse il diritto più grande. Il diritto alla speranza è l’unico pre-requisito che dobbiamo tutelare per e con i nostri figli. Anche quando il cuore è pesante e lo sgomento infinito, il domani per un bambino deve rappresentare uno “spazio temporale” orientato alla fiducia e alla speranza.