Si fa risalire la Peer Education (PE) al metodo di
mutuo insegnamento elaborato dal religioso
anglicano Andrew Bell (1753 – 1832) e dal
quacchero Joseph Lancaster (1778 – 1838). Con
esperienze simili, fra fine ’700 e primi anni del XIX
secolo, il primo in India (Madras) e il secondo nei
quartieri operai di Londra diedero vita a scuole dove
un maestro istruiva gli allievi più competenti (i
“monitori”) che poi ripetevano la lezione a piccoli
gruppi di allievi. Sotto la supervisione del maestro,
in grandi locali i “monitori” operavano contemporaneamente
con una didattica semplificata (per esempio:
cantilene da memorizzare) e strumenti economici
(per esempio: cassette di sabbia quali lavagne).
Tale movimento ebbe larga diffusione nell’area
anglosassone (Gran Bretagna e Stati Uniti) e in
gran parte d’Europa. In Italia fu in particolare sostenuto
dal patriota lombardo Federico Confalonieri
(1785 – 1846), da Silvio Pellico e dal federalista Giuseppe
Pecchio (1785 – 1835) che ne diffuse i principi
su “Il Conciliatore”. Il metodo monitoriale riuscì
così a fronteggiare l’esigenza della nuova società industriale
di una rapida alfabetizzazione dei “bambini
poveri” (J. Bowen 1983); va comunque tenuto
ben distinto dalla PE sia per la finalità più istruttiva
che preventiva sia per il rapporto verticale dei “monitori”,
più “vice-maestri” che “pari”.
Maggiormente anticipatrice della PE fu l’esperienza
di Pestalozzi che nel 1798-99, trovandosi da
solo e senza mezzi a gestire l’orfanatrofio svizzero di
Stans, dove erano raccolti giovani di diverse età, figli
dei rivoltosi antigiacobini uccisi dall’esercito
francese, privilegia rispetto al modello
dei “monitori” (ripetitori) quello
della responsabilizzazione e della attivazione
di una relazione “fraterna”,
educativa e affettiva dei ragazzi più
grandi che, oltreché allievi, diventarono
“aiutanti e collaboratori”.
Un ulteriore elemento che caratterizza la PE è il suo collocarsi non tanto nell’ambito dell’apprendimento scolastico ma, a partire dagli anni ’70 del Novecento negli Stati Uniti, in quello dell’educazione sanitaria per sensibilizzare i giovani sulla diffusione delle infezioni sessualmente trasmesse (Ist), sull’uso di tabacco, droghe e alcol, sia in ambiti scolastici e giovanili sia in comunità locali come il quartiere gay di San Francisco. I peer educator, nel loro ambito di azione, “sono visti come uno di noi”: il messaggio orizzontale, in particolare in ambiti come quello giovanile, sembra dotato di maggiore efficacia. A questo si è aggiunta la crescente consapevolezza che l’informazione, anche se rigorosa, non è sufficiente a modificare i comportamenti.
1. Cosa intendiamo?
1. Cosa intendiamo? La Peer Education
(declinabile in italiano come
“prevenzione fra pari”) è una strategia
di prevenzione basata sulla mobilitazione
dei soggetti che comporta un
percorso di gruppo scandito da fasi
ben delineate, finalizzato verso un esito
prestabilito (per esempio, la prevenzione
delle Ist) e sufficientemente
flessibile per garantire il suo adattarsi
a obiettivi e situazioni anche molto
diversi. La PE si configura come
una risposta “dal basso” alla questione
della prevenzione e ai limiti degli
interventi incentrati solo sull’informazione.
La PE si fonda su un rapporto
di rete tra adolescenti, associazioni
di volontariato e partner istituzionali
(Asl, scuole secondarie, amministrazioni
locali). La critica ai modelli tradizionali
non deve essere intesa come
annullamento del ruolo adulto, ma
come il tentativo di valorizzare i diversi
ruoli e le differenti competenze individuali,
sociali e istituzionali. La PE
si configura come una pratica educativa
non autoritaria. Essa si diffonde
grazie al protagonismo degli adolescenti
(livello orizzontale) e alla ridefinizione
del ruolo, maggiormente
“defilato”, degli adulti (livello verticale)
che svolgono una funzione imprescindibile
di tutoraggio, formazione
e coordinamento.
La PE fa leva sull’apprendimento
emotivo e sulla riattivazione dei processi
di socializzazione naturale tra i
ragazzi. Un’ulteriore spiegazione della
sua efficacia è, infatti, da ricercare
nella presenza di emozioni e esperienze
condivise. I giovani, peer e non
peer, parlano di sé, del proprio essere
in relazione con il mondo, delle proprie
emozioni e lo fanno utilizzando
un linguaggio comune.
2. Cosa non intendiamo.
2. Cosa non intendiamo. La PE
non è una forma di apprendimento
scolastico, si distanzia dal cooperative
learning e da qualsiasi forma didattica
che, come nel mutuo insegnamento
ottocentesco, valorizzi il ruolo dell’allievo
come attore dell’apprendimento
dei compagni.
La finalità non è cognitiva,
ma preventiva.
La PE non è una modalità d’animazione
giovanile, orientata su obiettivi
interni di socializzazione e valorizzazione
delle capacità e della creatività
individuale e di gruppo, ma su obiettivi
esterni prestabiliti, socialmente rilevanti
(prevenzione sociale).
La Peer Education non è una dismissione
dei ruoli degli adulti, ma mette
in relazione, in modo diverso, mondo
giovanile e mondo adulto, comunicazione
orizzontale e comunicazione
verticale. Il ruolo degli adulti si ridefinisce
parallelamente alla definizione
del ruolo dei giovani ragazzi (in questo caso: peer): ovvero un adulto che
deve intendersi non tanto mobilitatore
diretto dell’azione giovanile, ma
piuttosto “operatore laterale” che prepara
il terreno ma non interviene direttamente
sulle dinamiche.
Se la PE è una strategia di prevenzione sociale che mette in campo l’azione diretta dei pari, per la sua realizzazione sono indispensabili alcuni “ingredienti”. Vediamoli.
a) L’ obiettivo di prevenzione
L’ambito privilegiato è quello della salute, ma non mancano esperienze in altri ambiti, come, per esempio, la prevenzione del bullismo o degli incidenti stradali. È fondamentale che l’obiettivo di prevenzione sia ben definito, non generico, ed esprima un’esigenza condivisa sia a livello istituzionale che da parte del gruppo dei pari.
Se il tema delle Ist si incontra facilmente con l’aspirazione a una visione di sessualità consapevole liberata da timori e paure, altri temi quali quello del tabagismo possono essere più difficili da condividere; così come temi che coinvolgono in modo più profondo e complesso le dinamiche dei soggetti, quale quello dei disturbi alimentari (anoressia e bulimia): questi temi lasciano perplessi sulla possibilità di un utilizzo concreto della PE per la loro prevenzione.
b) L’individuazione del target di riferimento e del target bersaglio
Il target di riferimento privilegiato è dato dalla popolazione giovanile, in particolare quella scolastica, perché la comunicazione fra pari assume un valore fortemente emozionale nei gruppi giovanili, e l’ambito scolastico permette di raggiungere la maggior parte dei giovani. Particolare attenzione deve poi esser prestata al target bersaglio, specie nella fase di avvio di un progetto. Decidere di iniziare l’esperienza in una scuola, piuttosto che in un’altra, deve fare i conti con la disponibilità dei giovani e con il contesto: quanto la direzione e gli insegnanti di quella scuola condividono il progetto e sono disposti a crearne le condizioni favorevoli.
c) Il reclutamento e la formazione dei giovani peer
Il reclutamento richiede una fase preliminare di promozione che può avvenire con differenti modalità (materiale a stampa, incontri, filmati…); l’esperienza dice che la promozione è tanto più efficace tanto più è essa stessa progettata e gestita da coetanei.
Vi è poi la fase di “accesso/selezione”: tutti coloro che lo desiderano possono diventare peer o devono esserci dei criteri selettivi? I diversi modelli di PE qui possono divergere in modo consistente. È una scelta o si è scelti (dai pari, dagli insegnanti, dai formatori)?
Naturalmente le modalità di accesso sono collegate a come è concepita la formazione e il ruolo del peer.
d) Ruolo e formazione degli adulti
In primo luogo si fa riferimento agli adulti della rete territoriale che progetta, organizza e supporta gli interventi Asl (associazioni del terzo settore, scuole, enti locali…). La rete può esser nata dall’alto per un input istituzionale o dal basso; in ambedue i casi è essenziale che entrambe le dimensioni siano presenti: il supporto istituzionale per il reperimento delle risorse umane, professionali ed economiche e per la validazione dell’esperienza, e il coinvolgimento diretto di singoli in grado di condividere idee, linguaggi e progetti.
e) Setting di intervento
Ci riferiamo soprattutto al setting gestito dai peer, anche se, in relazione a questo, andranno definiti quelli degli interventi degli adulti e della formazione.
Il peer deve poter operare in un setting strutturato in cui si trovi a suo agio perché già sperimentato con simulazioni nella formazione, e che gli permetta una comunicazione orizzontale calda, che faciliti l’emersione nel gruppo di ansie, emozioni e vissuti. Le tecniche e modalità di gestione dei gruppi proprie della psicologia sociale (focus group, brain storming, role playing, problem solving) sono quelle più generalmente utilizzate, non escludendo altre modalità di tipo artistico espressivo e comunicativo (come per esempio un video).
L’importante è che il modello d’intervento non sia calato dall’alto, ma costruito e condiviso dai peer sia durante la formazione iniziale sia, soprattutto, nei momenti formativi di rielaborazione dell’esperienza e preliminari a ulteriori interventi. Se questi cinque sono gli ingredienti fondamentali vi è un sesto ingrediente che potremmo definire trasversale, il sale che dà sapore al tutto: quello della partecipazione.
A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, nel
nostro Paese si sono sviluppati diversi progetti di PE, ispirati
inizialmente alla tradizione anglosassone, interpretati in maniera
differente a livello locale in funzione degli obiettivi assunti, delle
diverse sensibilità e dell’influenza esercitata da alcuni modelli
proposti a livello nazionale (cfr. Pellai A., 2002 pp. 57-63).
Di fronte
a questo scenario possiamo individuare tre criteri per un confronto fra
i vari progetti: i diversi target, le aree della prevenzione e i
principali modelli di riferimento.
Tipologie di progetti
a) Target. Mentre nell’esperienza europea prevalgono quelli che
individuano i destinatari nella popolazione studentesca, sia nelle prime
esperienze statunitensi sia in molte più recenti, in particolare
extraeuropee, i target di riferimento possono essere fra loro assai
differenziati. Possiamo allora utilizzare un primo criterio di
confronto: il target di riferimento distinguendo fra popolazione
scolastica e popolazione extrascolastica; poi fra progetti rivolti solo a
certe fasce d’età (giovani in particolare) e quelli che si rivolgono ad
adulti o a gruppi/comunità non individuati in base all’età (per
esempio, un quartiere, la popolazione carceraria, ecc.).
In maniera sintetica, ecco i target
di riferimento:
A) a.1. Scuola, a.2. Extra-
scuola;
B) b.1. Giovani, b.2. Adulti/
Popolazione indifferenziata.
b) Aree della prevenzione.
Seguendo le
indicazioni di Croce e Vassura (2011)
possiamo individuare le tre fondamentali
aree di prevenzione verso cui
si muove la Peer Education:
- area informativa (se sai che esiste
il rischio, lo puoi evitare);
- area di supporto educativo (se
hai gli strumenti per riconoscere il rischio,
lo puoi evitare);
- area di promozione della cittadinanza
attiva (se insieme ci aiutiamo e
condividiamo gli strumenti per individuare
e riconoscere il rischio, più facilmente
possiamo collettivamente
provare a evitarlo).
Modelli di riferimento (polarità
leggera e polarità forte).
I tentativi di
identificare i “modelli”
di Peer Education
a partire dai riferimenti
teorici
non hanno dato vita
a una classificazione
condivisa.
Il
motivo ci sembra
chiaro: la PE può
esser considerata
una pedagogia
dell’esperienza. Se
esistono e sono
identificabili dei
“modelli” di PE questi non derivano da
teorie (psicologiche e/o sociali) preesistenti;
il rapporto con le scienze sociali
è infatti quello di un utilizzo plurimo
di categorie e metodi e della loro validazione
sul campo.
Osservando e confrontando i diversi
progetti ci è sembrato di poter individuare
due polarità antitetiche a cui i diversi
aspetti della PE possono esser riferiti.
Le due polarità sono, in primo luogo,
quella leggera e, in seconda battuta,
quella forte, identificabili attraverso
cinque assi.
a) Obiettivi (e ricadute) degli interventi
di prevenzione. La presenza o meno di
un obiettivo preciso e delimitato (per
esempio: prevenzione Aids/Ist) è il
primo degli elementi che caratterizza
il modello leggero; si tratta, in genere,
di un obiettivo che ha un’ampia rilevanza
sociale e che riguarda, direttamente
o indirettamente, tutta la popolazione
(o alcune sue fasce significative)
di una comunità.
Nella polarità forte la definizione
dell’obiettivo è meno marcata in
quanto si intende intervenire su una
fascia abbastanza ampia (per esempio:
life skill) che può, di volta in volta,
esser specificata a seconda delle diverse
situazioni.
b) Reclutamento e formazione dei peer
educator. Nella polarità leggera la candidatura
dei peer avviene per auto-selezione,
sulla base
del principio per
il quale chiunque
si renda disponibile
può accedere a
tale ruolo.
Nella polarità
forte l’arruolamento
avviene sulla
base di criteri
prestabiliti di selezione.
Il peer cioè
è scelto dagli adulti
o dai propri pari.
Nella polarità leggera per la formazione
si fa riferimento ai peer quali risorse
non professionali, con competenze
essenziali di psicologia sociale ai
fini della gestione dei gruppi e una
formazione circoscritta sul tema oggetto
dell’intervento: una formazione
leggera (mediamente 16-20 ore) integrata
dall’esperienza sul campo.
Nella polarità forte la formazione
fornisce anche competenze con valenza
cognitiva per costruire una professionalità
più pronunciata che consente
al peer di fornire risposte precise al
gruppo dei pari sulle tematiche oggetto
degli interventi: un programma formativo
di 40-80 ore orientato sia a
competenze comunicative, sia a conoscenze
scientifiche più approfondite.
c) Ruolo degli adulti. La presenza di
adulti prossimali (per esempio, gli insegnanti)
con specifici interventi nei
progetti, orienta l’intervento verso la
polarità leggera; essi svolgono una
funzione di supporto e rafforzativa rispetto
ai peer fornendo, in uno spazio
autonomo, le informazioni scientifiche
corrette. Gli esperti esterni agiscono
invece in modo indiretto all’interno
dei percorsi formativi sia dei peer
sia degli adulti. Nella polarità forte la
presenza degli adulti prossimali non
sempre è prevista. Il loro ruolo può esser
delegato agli stessi peer educator
che agiscono pertanto sia sul fronte
comunicativo sia su quello informativo,
eventualmente supportati dalla
presenza degli esperti esterni.
d) Il setting degli interventi. Nel caso
della polarità leggera lo spazio ha una
configurazione sempre diversa dal setting
scolastico, è orientato a facilitare
un intervento di tipo animativo (per
esempio, quello circolare nel caso del
focus group) associato a un tipo di comunicazione
calda e orizzontale che
facilita l’emersione di ansie ed emozioni
e nel quale viene privilegiata la
relazione tra i peer e il gruppo.
Nella polarità forte si prevede anche
un setting di tipo scolastico centrato
sulla modalità della lezione nella
quale si privilegia la relazione fra il
peer e i singoli. Si tratta di uno spazio
maturo nel quale è possibile affrontare
i problemi in modo razionale piuttosto
che emotivo.
Nella prima modalità sono i peer
stessi a gestire il gruppo classe, mentre
gli adulti prossimali intervengono
separatamente in un apposito spazio;
nella seconda modalità i peer possono
essere affiancati dagli adulti (insegnanti
o più spesso operatori dei servizi
o esperti esterni) che li coadiuvano
al fine di modulare gli interventi in
contesti diversi e affrontare problematiche
anche molto specifiche.
e) Rete territoriale e comunità. Una rete
territoriale di supporto si rivela essenziale
nella promozione di tutti gli
interventi di PE.
Nella modalità leggera
la rete si costituisce generalmente
dal basso, sulla base della condivisione
delle competenze, mentre nell’altro
caso nasce e si sviluppa più per effetto
di un processo dall’alto e ha il
suo punto di forza nella presenza di
un partner esterno, per esempio una
agenzia formativa, che si fa garante
della sviluppo degli interventi e
dell’adesione agli obiettivi prefissati.
La progettazione degli interventi nel
primo caso avviene a livello di comunità
territoriale, mentre nel secondo caso
è circoscritta a specifiche realtà.
Nel caso contrario (polarità forte)
questi processi risultano meno fluidi
poiché vengono mediati dagli adulti,
mentre la propensione alla costituzione
di capitale sociale giovanile da parte
dei peer è meno pronunciata a vantaggio
di una loro maggior professionalizzazione
individuale.
Negli ultimi anni, tenendo presente
la sua ampia diffusione, la Peer Education
sembra esser diventata di moda
tra gli operatori e i finanziatori dei
progetti sulla salute. Volendo essere
più precisi, la PE è diventato un “marchio”
capace di rendere (per lo meno
a parole) innovativo qualsiasi progetto
di promozione educativa e di prevenzione
del disagio. Il rischio che numerosi
programmi educativi siano automaticamente
(e forse troppo frettolosamente)
definiti come Peer Education,
allora, è dietro l’angolo.
A volte si ha il sospetto che la stessa
popolarità della PE sia frutto di un malinteso.
Da un lato, i ricercatori e gli
operatori sono a conoscenza della
complessità di questa metodologia
che implica un notevole investimento
culturale e pedagogico.
Dall’altro, invece,
si ha l’impressione che la PE venga
concepita piuttosto come pratica
di “risparmio” di tempo e di risorse
economiche e professionali.
Ai promotori, in ultima analisi, non
deve sfuggire il rischio che, in una società
come quella attuale sempre più
attenta all’efficacia e alla standardizzazione,
la Peer Education possa essere
confusa con un “modello di addestramento”.
Se è vero che la Peer Education
corrisponde e fa riferimento a criteri
e metodi precisi, lo stesso non possiamo
dire del peer educator, che in nessun
modo deve essere visto e concepito
come qualcuno cui omologarsi, un
modello standard da imitare.
La Peer Education, e ciò va ribadito fino
alla fine, nasce e cresce proprio
dentro il gruppo dei pari, riconoscendo
con forza che il piccolo gruppo rimane
il cardine della possibilità stessa
d’individuazione personale e di conseguenza
dello sviluppo del benessere
esistenziale.