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mercoledì 30 aprile 2025
 
 

La pena di morte non si ferma

19/01/2013  La sedia elettrica torna a uccidere in Virginia. In Sri Lanka suscita sdegno l'esecuzione di una babysitter. In troppi Paesi giustizia fa ancora rima con vendetta.

In Virginia, con l’ennesimo “omicidio legalizzato” è stato giustiziato Robert Gleason, che aveva ucciso due compagni di cella mentre stava scontando un ergastolo. La prima condanna a morte del 2013 negli Stati Uniti porta con sé un’altra brutta notizia: il ritorno della sedia elettrica, che non veniva più utilizzata dal 2010.
Già la settimana scorsa si sono levate molte proteste contro la pena di morte per l’esecuzione di Rizana Nafeek. Le hanno tagliato la testa per l’omicidio di un neonato di cui faceva la tata nel 2005, quando era ancora minorenne. Una condanna a morte eseguita in Arabia Saudita, paese che nell’ultimo anno ha registrato almeno 79 esecuzioni, di cui 27, non a caso, nei confronti di cittadini stranieri. Rizana Nafeek era nata in una famiglia povera dello Sri Lanka; emigrata in cerca di lavoro in Arabia, è diventata adulta nel braccio della morte. Infatti, quando nel 2005 il neonato che accudiva morì mentre gli stava dando da bere del latte, Rizana fu accusata di averlo ucciso e arrestata.

Nonostante si sia sempre proclamata innocente,
fu interrogata e processata senza avvocato e senza interprete, come spesso accade nei procedimenti penali del regno saudita. Firmò una confessione in arabo, senza capire cosa ci fosse scritto, e anche gli appelli della associazioni internazionali, come Amnesty International e la Comunità di Sant’Egidio, non sono servite a salvarla.

L’esecuzione, tra l’altro, viola la Convenzione Internazionale sui Diritti del Bambino che proibisce la pena capitale per crimini commessi da minorenni: l’Arabia ha firmato la Convenzione e Rizana aveva 17 anni all’epoca del fatto. Nel mondo, tra i “dead man walking”, “gli uomini morti che camminano” ovvero i condannati a morte, non mancano purtroppo i minori. Come Alphonse Kenyi Makwach, che oggi ha 16 anni ed è recluso insieme ad altri nove adolescenti nel braccio della morte del carcere di Juba, capitale del nuovo stato africano del Sud Sudan. Alphonse, che vendeva bottiglie di plastica raccolte per strada per aiutare la famiglia, è stato arrestato nel 2009, a 13 anni, con l’accusa di omicidio plurimo compiuto da una banda giovanile violenta, a cui era ritenuto appartenere. È stato condannato a morte l’anno successivo, ma la Comunità di Sant’Egidio denuncia: «Blandi indizi conducevano a lui. Alphonse dice di essere stato costretto con le percosse dei poliziotti ad ammettere un omicidio che non aveva assolutamente compiuto. Fu trascinato davanti a un giudice e, dopo un interrogatorio sommario in cui il ragazzo professò con caparbietà la sua innocenza,fu ugualmente portato in prigione».

Anche in Iran, secondo solo alla Cina nella triste classifica delle esecuzioni, la pena di morte ha recentemente fatto nuove vittime. Più di una al giorno: almeno 431 nel 2012 e 670 nel 2011. Nel nuovo anno, il 5 gennaio, due giovani sono stati impiccati per uno stupro, mentre il giorno successivo la stessa sorte è toccata a due uomini condannati per possesso e traffico di droga. Il 27 dicembre, invece, le vittime sono state ben 12, tra cui 6 curdi accusati di far parte di un gruppo salafita. Non mancano però le buone notizie.

A novembre, una nuova richiesta di moratoria delle esecuzioni è stata approvata all’Onu con ben 110 voti favorevoli, una cifra record. O come l’abolizione della pena di morte in Mongolia, Gabon, Togo, Benin e nell’americano Connecticut. Proprio negli Usa, il 2012 è stato l’anno in cui si è ucciso di meno (43 persone) dal 1977, anno della reintroduzione della pena di morte. Sister Helen Prejean, la suora che è forse il volto più noto di questa battaglia in America, ha raccontato nel suo libro “Dead Man Walking” l’ingiustizia della pena capitale e di come, quando lo Stato uccide in nome della comunità, abbassa tutta la comunità al livello di chi uccide.

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