Il fatto «non costituisce reato». Insomma, la povertà non è reato. Lo ha stabilito una sentenza del Tribunale di Milano a proposito dell’occupazione abusiva contestata ai rom romeni che abitavano nella piccola baraccopoli di via Cima. In occasione dello sgombero del 15 marzo 2015, sette di loro erano stati indagati per “invasione di terreni” (art. 633 del codice penale), colpevoli di vivere «all’interno di baracche fatiscenti utilizzate come dimora abituale». Ma il Giudice della 4^ sezione penale li ha assolti.
Maura Sianesi, il legale della Comunità di Sant'Egidio che li ha difesi rom durante il processo, ha invocato lo stato di necessità, per salvaguardare il diritto fondamentale all’abitazione, senza causare danni a nessuno. Il terreno su cui sorgevano le baracche era – ed è tuttora – inutilizzato. «Dovevamo riparare i bambini, non avevamo alternative possibili», dice Genesa, 25 anni. Suo marito invece non era imputato: la mattina dello sgombero era impegnato ad accompagnare i tre figli a scuola e la polizia non lo aveva trovato. La casualità più totale. Si tratta di una pratica che spesso accompagna gli sgomberi delle baraccopoli: insieme alle ruspe vengono emesse le denunce per occupazione abusiva. Inutili per prevenire la ricostruzione di tende o baracche (le persone non spariscono), ma che hanno l’effetto di intasare i Tribunali, già oberati di lavoro, oltre che costare soldi alla collettività (dal lavoro dei giudici agli avvocati di ufficio). Per i sette rom di via Cima si è svolto infatti un processo a tutti gli effetti, con udienze dei testimoni e degli indagati.
In questo caso la differenza è stata che Sant’Egidio fosse presente allo sgombero e che l’avvocata Sianesi accettasse di difendere i rom; altre volte vengono nominati avvocati di ufficio che all’avvio del processo, magari dopo anni, non sanno neppure come contattare e avvisare chi, sulla carta, dovrebbero difendere. Se non si ha una residenza, non si può neppure mandare una comunicazione scritta. Quando si è poveri, non sempre la giustizia è uguale per tutti. Talvolta alcuni baraccati finiscono condannati senza neppure saperlo, né aver potuto spiegare le proprie ragioni. L’articolo 633 per cui i baraccati sgomberati erano accusati prevede fino a due anni di reclusione. Nessuno dei 7 indagati aveva precedenti condanne, quindi forse non sarebbero finiti in carcere, ma un’eventuale condanna avrebbe sporcato le loro fedine penali: per lavori come il magazziniere, svolto da uno degli abitanti di via Cima, serve che sia pulita, quindi avrebbe rischiato il posto.
La baraccopoli, seguita dalla Comunità di Sant'Egidio a titolo gratuito dal 2011 al 2015, era abitata da otto famiglie. Nonostante le difficili condizioni di vita, tutti i minori presenti erano iscritti regolarmente dall'asilo nido alle superiori, il loro percorso era affiancato con un doposcuola presso la Biblioteca di zona e le docce presso la vicina parrocchia. Anche per gli adulti erano stati avviati dei percorsi di inserimento lavorativo. Genesa ricorda il primo giorno di scuola del figlio maggiore: «Era tutto fiero del suo zainetto rosso e blu; io tremavo impaurita che non si trovasse bene, ma sapevo che la strada era giusta».
Nel 2015, dopo lo sgombero, Genesa con i tre figli piccoli ha dormito in una tenda nascosta in un capannone fatiscente (anche questo, a due anni di distanza, ancora abbandonato). Le chiedo se la denuncia per occupazione abusiva non l’avesse scoraggiata. Mi guarda stranita, giustamente fatica a capire il senso della domanda: «Cosa dovevo fare? Certo non mi piaceva vivere in un posto in cui manca l’acqua, la corrente elettrica, tutto». Quando faceva freddo, i piccoli calzini appesi ad asciugare ghiacciavano: «E ne servivano due paia – spiega – uno dentro le scarpe, l’altro sopra, per non scivolare nel fango».
«La sentenza – ha dichiarato la Comunità di Sant'Egidio - è un forte "stop" alla criminalizzazione della povertà. Le otto famiglie vivevano nelle baracche non per scelta ma per la povertà e l'assenza di alternative». La prova arriva proprio da via Cima: oggi, grazie al sostegno di Sant'Egidio, tutte le otto famiglie vivono in casa, continuano la scolarizzazione dei figli e in ciascuna lavora almeno un componente. Genesa si ricorda quando le è stato proposto di iniziare la vita in casa: «Un anno prima, al mercato, avevo comprato delle tende viola, le tenevo ripiegate da parte per il giorno che aspettavo da tempo». Oggi le tende sono appese alla finestra della cucina: «Il sogno finalmente diventava realtà, finiva il tempo dei topi e delle baracche. Avevo incominciato a fare le pulizie da una signora e così potevo pagare le bollette e metà dell’affitto». Sant’Egidio, che l’aveva presentata alla datrice di lavoro, pagava l’altra metà.