È una miscela esplosiva quella che sta infiammando le città americane. Una miscela in cui si sommano la frustrazione della comunità afroamericana, gli eccessi di violenza della polizia e della Guardia Nazionale, la volontà dei suprematisti bianchi di soffiare sul fuoco e alimentare il caos.
Le proteste sono cominciate a Minneapolis dopo la brutale uccisione, il 25 maggio, di George Floyd da parte di un poliziotto. Un video ripreso con un telefono ha mostrato l’agente Derek Chauvin premere per oltre 8 minuti sul collo di Floyd, 46 anni, steso a terra ed ammanettato. “Non riesco a respirare”, si è lamentato Floyd. Son state le sue ultime parole, ormai diventate lo slogan delle manifestazioni. Chauvin è stato prima licenziato e poi incriminato per il reato di “omicidio di terzo grado”, l’equivalente dell’omicidio preterintenzionale (quando cioè si vuole provocare un danno a una persona, ma non ucciderla).
Da Minneapolis le proteste si sono estese a oltre 70 città americane. Tra queste New York, Washington, Los Angeles, Atlanta, Chicago, Columbus, Miami. I sindaci di 25 città hanno dichiarato il coprifuoco, ma la questo non ha impedito violenze, incendi, saccheggi di negozi e centri commerciali. A Indianapolis un giovane manifestante è stato ucciso con dei colpi sparati da un’auto in corsa, a Jacksonville (Florida) un agente è stato accoltellato al collo. Nella notte fra sabato e domenica la polizia di New York ha arrestato 345 persone. In tutti gli Stati Uniti, dall’inizio della protesta, le persone arrestate sarebbero oltre 1.400. In molte città è stata schierata la Guardia Nazionale.
Le forze dell’ordine hanno continuato a compiere eccessi picchiando o arrestando i giornalisti (ha fatto scalpore l’arresto in diretta di un reporter della CNN, poi rilasciato), sparando a casaccio pallottole di gomma, spingendo le auto contro i manifestanti (è accaduto a New York). Molto professionale invece il comportamento di Erika Shields, capo della della polizia di Atlanta, scesa in strada per dialogare con i manifestanti, mostrando grande capacitò di ascolto e un pieno controllo della situazione.
La comunità afroamericana accomuna il nome di George Floyd a quelli di Michael Brown (un diciottenne ucciso da un poliziotto bianco a Ferguson nel 2014) e di Eric Garner (soffocato da un poliziotto a New York sempre nell’estate del 2014). Quelle due vittime ed altri soprusi dei poliziotti nei confronti dei neri hanno portato alla nascita del movimento Black Lives Matter (Le vite nere contano).
Ma la protesta di questi giorni va anche inserita in un contesto sociale ed economico molto difficile a causa della pandemia di coronavirus che ha costretto l’economia americana a una brusca frenata. Negli ultimi mesi 40 milioni di americani hanno perso il lavoro e questo esaspera il malcontento. Una situazione ideale per chi vuole soffiare sul fuoco, come i gruppi legati all’estremismo di destra, che nelle ultime settimane hanno organizzato proteste contro il lockdown, alimentando i sospetti di oscuri complotti contro l’America e le sue libertà.
Trump, come suo solito, più che pacificare ha soffiato sul fuoco, dicendo, ad esempio, che “quando iniziano i saccheggi si inizia anche a sparare”. Il candidato democratico alla presidenza, Joe Biden, ha condannato la violenza delle proteste, sottolineando tuttavia che gli americani hanno diritto di manifestare. "Protestare contro tale brutalità”, ha detto, “è giusto e necessario. È una risposta assolutamente americana, ma incendiare le comunità e distruggere inutilmente non lo è. La violenza che mette in pericolo la vita non lo è. La violenza che distrugge e chiude le attività che servono alla comunità non lo è".