Il problema esiste. Sara Binazzi, psicologa, psicoterapeuta, esperta in psicologia dello sport è la prima ad ammetterlo. Al passaggio cruciale tra il podio e il suo dopo si pensa poco, si pensa tardi e troppe volte ci si arriva impreparati.
Chi dovrebbe pensarci?
«Non si può pretendere che gli atleti, spesso sotto pressione già da giovanissimi, quando la persona è ancora in formazione, ci arrivino da soli. Bisogna che qualcuno glielo metta in testa. Tocca, toccherebbe, agli adulti che fanno sistema attorno a loro: allenatori, psicologi, insegnanti, genitori».
E invece?
«E invece spesso sono tutti troppo concentrati sul risultato e perdono di vista la persona. Ma un atleta che vince, ammesso che vinca, e poi fallisce come persona non può essere considerato un successo del sistema sport».
Ha parlato di insegnanti: sport e scuola nodo critico. Lo sport accusa la scuola di sentirlo come un intralcio, è un cattivo pensiero sospettare che sia un problema reciproco?
«Non tanto, nel senso che troppo spesso scuola, famiglia e sport non dialogano nei fatti, anche quando a parole dicono di farlo: lo sport è concentrato sul suo risultato, la scuola sul voto e si vivono come una distrazione reciproca».
E le famiglie?
«Spesso caricano i ragazzi di grandi aspettative, di pressioni eccessive, non tenendo conto che troppe volte le promesse dello sport non vengono mantenute: un bambino che promette bene, magari crescendo non diventa il campione che sognava. Chi lo tutela se non gli creiamo intorno delle strade alternative? Solo così si previene il disastro, crescendo persone che non siano focalizzate su un solo obiettivo, destinate a fallire complessivamente se quello non viene raggiunto o quando quello viene meno. Dov’è scritto che un ragazzo che fa sport anche a buon livello non debba avere altri interessi?».
Eppure spesso i genitori, per dare ai figli l’opportunità di fare sport, si accontentano di contrattare con il ragazzo un diploma comunque sia. È sufficiente?
«No, se finalizzato alla conquista del pezzo di carta, preso come capita e non mirato all’investimento sul futuro. I ragazzi vanno aiutati a mantenere la consapevolezza che lo sport anche quando diventa un lavoro è destinato a finire: una parte significativa della vita ma una parte».
Capita parlando con campioni non più di primo pelo di aver la sensazione che rimuovano, è così?
«Sì, perché ne hanno paura e gli psicologi dello sport che hanno intorno troppo spesso vengono reclutati per insegnare loro a vincere, perdendo di vista il trauma che verrà. Dobbiamo anche noi fare uno sforzo di autoconsapevolezza: anche perché un ragazzo che non sta bene come persona, spesso, non riesce neppure a vincere».
E, d’altro canto, vincere non è garanzia di riuscire come persone dopo…
«Un ragazzo che diventa campione è un ragazzo che fin da giovanissimo vive in un turbine di emozioni forti, ha una vita di grande intensità destinata a cambiare drasticamente ritmo. Quel cambiamento va preparato, diversamente si va incontro alla frustrazione. Il campione è abituato a vedere il risultato. Dopo, anche quando ha la possibilità di applicare le cose che ha imparato ad altri campi, è destinato a sperimentare la difficoltà di non vedere i risultati subito o di vederli diversi da come li aveva immaginati. Chi farà l'allenatore per esempio deve imparare a cedere all'atleta la ribalta o accettare l'idea di allenare dei ragazzini, la cui ribalta non vedrà, ammesso che ne arrivi una. Prima si prepara quel momento dal punto di vista mentale, meglio lo si affronta quando arriva. Il mondo dello sport deve pensarci presto, quando il ragazzino è piccolo: il cambiamento vero può venire solo da dentro, dallo sport come sistema».