Caro dottor Pellai, sono una mamma di tre bambini (9, 7 e 5 anni). Mi ha colpito il caso della studentessa di Latina, appena quattordicenne, che ha rifiutato di consegnare lo smartphone all’insegnante e per questo ha giustamente preso una nota, scatenando una reazione della famiglia intervenuta violentemente contro il dirigente. I media hanno confermato che la studentessa nei giorni seguenti ha insistito a opporsi alla decisione della scuola. I miei tre bambini quando arriveranno alle superiori cosa troveranno? Ragazzi che dettano legge, la scuola incapace di farsi rispettare e soprattutto il “maledetto” cellulare al centro della loro vita. Mi sento davvero inerme di fronte a tutto ciò... LORELLA
— Cara Lorella, ciò che è successo nella scuola di Latina ci fa riflettere su molti aspetti. Lo smartphone sembra essere diventata una parte del corpo dei nostri figli, cui non sono in grado di rinunciare mai. Se in un contesto educativo ti chiedono di stare senza, perché questa è la regola ritenuta più adeguata ai fini dell’apprendimento, tale imposizione è vissuta come una violazione dei diritti personali. Lo smartphone a scuola è un diritto intoccabile? Sappiamo che molte scuole pensano l’esatto contrario. Constando che si rivela un distrattore potente che spesso interferisce con i compiti di apprendimento, molte scuole ne limitano o ne vietano l’uso al proprio interno. Se l’intenzione di chi fornisce una regola non è sadica (cioè la regola non è pensata per provocare una sofferenza inutile), dovremmo assistere nel mondo adulto a un’alleanza tra le differenti agenzie educative.
“Quando mio figlio è nel tuo territorio, la giurisdizione che tu promuovi al tuo interno deve essere da lui rispettata. Io te lo affido perché mi fido di te”. I fatti di Latina, ma anche molti altri che giungono all’onore della cronaca, ci dicono che questa capacità di affidamento reciproco è potentemente usurata. Abbiamo sostituito la fiducia verso le altre agenzie educative con il bisogno di controllo. E tutte le volte che succede qualcosa a nostro figlio che gli procura disagio, non stiamo a riflettere se quel disagio può essere educativo o formativo per lui. Hai fatto soffrire mio figlio? E allora ti denuncio.
Stefano Rossi nel suo libro Mio figlio è un casino (Urra) dice che questo è lo stile dell’educatore skipper, «affetto da sindrome di sostituzione, nel segno di positivizzazione della vita, e quindi obbligato ad offrire al figlio la sua iper-presenza, per garantirgli una vita senza dolore».
A Latina abbiamo visto in azione un’adolescente confusa e un genitore skipper. Se c’è una cosa che so come professionista e come genitore è che non tutto ciò che piace ai nostri figli (e che reclamano come un diritto) a loro fa bene. Questo è ciò che stava cercando di fare la scuola di Latina. E io questa volta sto dalla parte della scuola