Liliana Segre.
«So cosa dice la gente del Giorno della Memoria. La gente già da anni lo dice, basta con questa idea, che cosa noiosa». Dietro lo sfogo amaro della senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, dobbiamo leggere il pericolo che da sempre aleggia sulla Shoah e sullo Sterminio di undici milioni di uomini e donne: quello dell’oblio. In tutto ciò che è umano nulla è per sempre: anche un’ecatombe come l’Olocausto rischia di scomparire o peggio, essere confusa – come il benaltrismo peloso dei fascisti («e allora le foibe?») - con altre stragi o altri genocidi, così da indebolirne la portata e la gravità morale, in un gioco a somma zero per cui tutti sono colpevoli e nessuno è colpevole. Proprio per questo anche l’unicità di Auschwitz è un valore da preservare.
L’antidoto all’oblio è il culto scientifico della storia, la ricerca e la conservazione dei documenti e delle prove, l’attenzione alle testimonianze, la saggistica, la letteratura, la circolazione delle idee. Tutto questo lo troviamo in Il cacciatore di nazisti. L’avventurosa vita di Simon Wiesenthal, il monologo recitato da Remo Girone scritto da Giorgio Gallione, che ne è anche il regista. Lo abbiamo visto al Teatro Franco Parenti di Milano, altissimo esempio di teatro civile che si fa testimonianza, ricordo, sofferenza e sdegno morale. La risposta alla provocazione di Liliana Segre e di chiunque abbia a cuore il futuro dell’umanità, di chi voglia evitare che la storia precipiti nuovamente nell’abisso dell’universo concentrazionario, l’ha messa insomma in scena Remo Girone (qui le prossime date della sua tournée). L’esigenza di non dimenticare, la preoccupazione di trovare e mantenere vive le prove, l’ossessione di scovare i carnefici. Tutto questo infatti è stato Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti.
Il monologo è congegnato in modo assai accattivante, come un thriller, ma nel suo svolgimento entra tutto l’orrore procurato dagli aguzzini tedeschi cui dà la caccia questo ebreo ostinato e coriaceo, internato in 5 campi di concentramento, sopravvissuto grazie alle sue qualità di disegnatore (gli fecero pitturare le aquile naziste sui vagoni diretti ad Auschwitz), così come Primo Levi dovette la sua salvezza alla possibilità di lavorare in un laboratorio di analisi. Wiesenthal venne salvato dagli americani a Mathausen, nell'aprile del 1945, quando ormai pesava 45 chili. Da allora decise di dedicare la sua vita alla caccia dei nazisti. Il suo motto era “giustizia, non vendetta” (divenuto poi il titolo della sua autobiografia). Aveva compilato in modo certosino e paziente le schede di 22.500 criminali di guerra, responsabili delle peggiori atrocità. Tra questi Adolf Eichman, il pianificatore della “soluzione finale” insieme a Heydrich, Franz Stangl, comandante a Treblinka e Sobibor o Karl Silbebauer, il sottufficiale della Gestapo che arrestò Anna Frank. Ma il puntello della sua mente fu sempre Josef Mengele, detto Todesengel, l’angelo della morte, il più gentile e malvagio di tutti, il medico che commise le peggiori atrocità ai danni dei bambini internati nel lager di Auschwitz. Uno psicopatico, un mostro che si faceva vanto della sua parete dell’ambulatorio totalmente coperto da bulbi oculari. L’uomo fuggito come molti altri in Sudamerica attraverso la “rat line”, la rotta dei topi, attraverso le coperture della famigerata organizzazione Odessa.
Remo Girone, che interpreta Wiesenthal senza giustamente curarsi molto di somigliargli nel fisico o negli atteggiamenti, si muove dentro una scena che è la ricostruzione del suo studio del Centro di documentazione ebraica di Vienna. Il protagonista della storia vi rimase fino a 95 anni, dentro uno spazio organizzato come una proiezione del suo cervello, dice nel monologo, montagne di faldoni racchiusi in centinaia di schedari (la scenografia è di Guido Fiorato). Alla fine su 22.500 nomi individuati ne farà arrestare 1.100. Durante il monologo Girone rovescia sacchi di scarpe, di capigliature, di anelli d’oro, di proiettili adoperati per uccidere con un colpo alla nuca gli internati. Prove inconfutabili di quanto accaduto, affinché non si dica che si è trattato di una sorta di invenzione. I nazisti, oltre che assassini, erano anche dei depredatori. E chi ha visitato Auschwitz non può dimenticare la stanza dove sono rimasti accumulati montagne di capelli, testimonianza perenne dell’orrore.
Ma a ben vedere Wiesenthal è solo un pretesto. Il cacciatore di nazisti è il filo rosso che tiene insieme i tanti episodi di atrocità commessi nell’universo concentrazionario, il vero protagonista di questo monologo. Quello che l’attore riesce a mettere in scena con la sua voce è la Shoah, l’olocausto di sei milioni di ebrei, all’interno dello sterminio di 11 milioni di uomini mandati a morire nei campi di concentramento nell’ambito della soluzione finale congegnata da Reinhard Heydrich e Adolf Eichmann e altri gerarchi e politici nazisti nella Conferenza di Wannsee, alle porte di Berlino, nel 1942. Girone nel suo monologo non si limita a testimoniare ma si interroga su una domanda ancora inevasa, la stessa di Hannah Arendt nella Banalità del male: perché? Perché individui così mediocri, che amavano i loro bambini, chiedevano nelle lettere delle rose del loro giardino, poi riempivano le buche delle piste di atterraggio degli aeroporti con montagne di cadaveri di internati, uccidevano, gasavano, pestavano a morte, sbattevano i bambini contro i muri per ucciderli e altre atrocità, come se si trattasse di normale amministrazione? Sottolineando un fatto inconfutabile: nessun ufficiale delle SS, nessun aguzzino avrebbe rischiato qualcosa se si fosse rifiutato di eseguire gli ordini di sterminio. Quando avveniva, il soggetto non veniva nemmeno soggetto a una punizione o un ammonimento. I nazisti che hanno partecipato alla soluzione finale, a cominciare dalle Waffen SS, sono stati tutti volonterosi carnefici di Hitler.
La voce di Remo Girone strappa quella immane tragedia all’oblio. La sua performance è straordinaria: non c’è parola che non abbia la giusta intensità, riuscendo di volta in volta a entrarci nell’animo per suscitare il nostro interesse, il nostro dolore e la nostra pietà per quanto accaduto, e, di conseguenza, il nostro sdegno morale. Cuore e ragione, nella voce calda e profonda di Remo Girone, sono alleati per risvegliare l’abisso, il gorgo nero della storia in cui l’umanità scivolò in quegli anni. Dovrebbe andare in scena in ogni scuola, come risposta alla provocazione di Liliana Segre, come perenne lezione contro l’odio.