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venerdì 11 ottobre 2024
 
Nobel
 

La risposta soffia nel vento: Dylan e i cattolici

14/10/2016  Mentre l'Università Cattolica si rivela fredda in nome di una domanda che è un tarlo (fin dove si spinge il concetto di letteratura?), il quotidiano Avvenire applaude a Blowin’ in the wind, una canzone cristiana, dice, penalizzata da una traduzione zoppa e retorica. Il vecchio Bob non smette di appassionare (e dividere) i credenti. Continuando a farli cantare tutti, dentro e fuori gli oratori

Tutto nello spazio di poche ore. Bocciatura e promozione s'intrecciano, segno che - dopo averli fatti cantare per decenni  - Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan, continua ad appassionare e dividere anche i cattolici. «Sarà uno scherzo del destino, ma è davvero curioso che l’annuncio del Premio Nobel 2016 a Bob Dylan sia stato dato poche ore dopo la morte di Dario Fo, altro nobel fuori squadra e fuori compasso, altro nobel anomalo come questo a Dylan», scrive su CattolicaNews, la rivista online dell'Università Cattolica del sacro Cuore di Milano il professor Giuseppe Lupo, docente di Letteratura italiana alla facoltà di Lettere e Filosofia. «A dir la verità gli accademici di Svezia ci hanno abituato a queste sorprese, non sempre condivise e condivisibili: diciannove anni fa un commediografo, adesso un cantante, in ogni caso due cantastorie. Prima o poi premieranno un pittore e forse un ballerino: ogni disciplina presuppone la sua espressività, ogni arte è fondamentalmente scelta di un codice, adozione di un linguaggio, cioè uso di parole. In fin dei conti, letteratura». 

«È facile supporre che la motivazione verterà sui testi delle canzoni più che sull’aspetto sonoro e dunque si rischia di passare per tradizionalisti dichiarando di essere sorpresi che i testi di Bob Dylan abbiano ricevuto il più importante dei premi al mondo», prosegue il professor Lupo. «In realtà, questa notizia impone un altro tipo di riflessione: fin dove si estende il concetto di letteratura? Non sarebbe il caso di ragionare su ciò che appartiene a essa e ciò che invece no?  pur accettando l’idea che la letteratura è diventata altro, pur non rinnegando la sua immagine inclusiva (e non esclusiva), diventa necessario tornare a definire le finalità e i compiti di ciò che chiamiamo libri, se non altro perché lo sconfinamento dei ruoli e delle strutture determina confusione e la confusione, il disorientamento generano quella percezione del tutto e del niente, quel languore decadente in cui ogni cosa finisce per assomigliare a un’altra e ne prende il posto, si sostituisce in maniera indolore. Nulla contro Bob Dylan, naturalmente, che ha nutrito la mia generazione e anche le successive con la sua voce da menestrello ambulante. Ma la sua vittoria è un ulteriore segno di questi tempi in cui la letteratura ha imboccato la strada del divertimento, regalando a tutti quella sensazione di labile onnipotenza secondo cui è sufficiente usare le parole (qualsiasi parola, anche la più consumata dal web) per convincersi di aver composto un poema omerico».

Pollice verso, dunque. Applausi invece dal quotidiano Avvenire che rilancia lesto un articolo del 2 agosto 2012 firmato da Umberto Folena. «Sono passati cinquant’anni dal giorno in cui Bob Dylan compose Blowin’ in the wind», vi si legge. «Era il 1962 e pochi mesi dopo, nel 1963, la canzone entrava a far parte dell’album The Freewheelin’ Bob Dylan. Nulla – nessun arrangiamento, nessun altro strumento, nessun effetto speciale – s’aggiungeva all’asciutta esattezza minimalista delle tre strofe, degli accordi alla portata di qualsiasi dilettante, dell’armonica dolente, della voce consegnata come se Dylan cantasse per te sussurrandoti le parole all’orecchio, con un’ostentata e disarmante semplicità».

«Cinquant’anni, ma cominciarono a pasticciarla e a rovinarla subito». continua Umberto Folena. «Nel 1964 la tradussero per Luigi Tenco, distruggendola. È la versione zuppa di retorica, con i verbi tronchi all’infinito a far da rima sciocca, che ancora oggi compare nei canzonieri. Il ritornello italiano riesce a dire l’esatto contrario del ritornello dylaniano: «Risposta non c’è, o forse chi lo sa, caduta nel vento sarà». Sembra un testo disperato e nichilista: inutile affannarsi, gente, tanto non c’è speranza… E' bello rendere giustizia a una canzone tanto semplice quanto vera, profonda, umana e cristiana. Dylan non è arrabbiato. Si rivolge all’umanità dicendo: «my friend, amico mio». Amico, fratello. Pone domande radicali: quanto dovrà camminare, affannarsi, lavorare e ancora tribolare un uomo prima di potersi dire veramente uomo, ossia scoprire la verità su se stesso, e comprendere il suo posto e la sua missione nel mondo? È stata definita «canzone pacifista», con un’etichetta che la impoverisce. Certo è contro la guerra; ma è soprattutto un invito a esercitare il giudizio critico, ad aprire le orecchie e a spalancare gli occhi».
 
«E' una canzone cristiana», conclude con forza Folena. «Forse non in modo consapevole, perché certi simboli sono troppo profondamente radicati nella cultura occidentale. Ma che dire della "bianca colomba" che solca i mari instancabile? E dell’invito a guardare verso l’alto per scrutare il cielo? Il ritornello poi sembra l’invocazione allo Spirito Santo. Non è vero che la risposta non c’è ed è caduta nel vento, come nella sciagurata traduzione italiana. La risposta c’è, alle domande radicali poste da Dylan ventenne, e «sta soffiando nel vento». Occorre avere i sensi all’erta, orecchie spalancate e occhi ben aperti, per riconoscere il soffio, appena un refolo, del vento che tutto cambia e sconvolge e rinnova». 

Passa il tempo e le voci si moltiplicano. Riprende quota una testimonianza vecchia di un anno, pubblicata il 26 ottobre 2015 da Aleteia in cui  Tom Hoopes,  ex direttore del  National Catholic Register,settimanale cattolico americano confida: «Ho iniziato a prendere sul serio Gesù grazie a Bob Dylan». La verità, la bontà, la bellezza... ci sono molti modi per essere attirati e Tom Hoopes afferma d'esser stato colpito dall'album Biograph uscito il 7 novembre 1985.  «You Gotta Serve Somebody”, cantava Dylan», scrive Hoopes. «“It may be the devil or it may be the Lord, but you’re gonna have to serve somebody” . Devi servire qualcuno. Può essere il diavolo o il Signore, ma qualcuno devi servire. La canzone mi è piaciuta tantissimo. L’egualitarismo puro dei suoi testi (nessuno è esente: ricchi e poveri hanno le stesse opzioni) era attraente quanto il loro ritmo. Più le ascoltavo, più mi rendevo conto che il cantante diceva la verità.I ragazzi amano la musica rock perché parla appassionatamente di cose di cui gli adulti si rifiutano di parlare. Dylan ha fatto questo in quella canzone. Ha detto che Gesù era importante. Doveva trovare il perché. Arrivare a Gesù in questo modo mi ha aiutato ad aggirare le pretese religiose e il bagaglio culturale che mi stavano impedendo gli accessi normali. Esiste più di un modo di rimanere affascinato dalla bellezza. Per me è stata una voce nasale del Minnesota con il sottofondo di un gruppo gospel».

Su Bob Dylan, si trovarono su sponde opposte anche Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger. Il cardinale, all'epoca Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede (l'ex Sant'Uffizio), non voleva che il cantautore Usa si esibisse davanti a Giovanni Paolo II al congresso eucaristico di Bologna del 1997. Papa Wojtyla però non gli diede retta e Dylan, insieme ad Adriano Celentano e ad altre pop star, cantò. L' episodio fu rivelato per la prima volta dallo stesso Benedetto XVI nel libro Giovanni Paolo II, il mio amato predecessore (Edizioni San Paolo), un testo del Papa emerito dedicato al suo predecessore distribuito da Famiglia Cristiana nove anni fa.
 
Se è vero che il vecchio Bob non smette di far discutere i cattolici è altresì vero che li mette d'accordo quando prendono la chitarra in mano. Re7, Sol7, Do, Mi7, Lam: gli accordi del ritornello di Blowin’ in the wind scivolano via veloci sulle corde. Dentro e fuori gli oratori. Oggi come ieri. 

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