Un ritratto giovanile di Juliette Colbert, la marchesa di Barolo
Fu nemica irriducibile dello
spirito del tempo, Giulia di
Barolo (1785-1864). Lei così
aristocratica, tradizionalista,
affascinante e colta, che
dava del tu a Camillo Benso
di Cavour (e lui, che pure
ne era innamorato, da anticlericale
la bollava come «papista»),
nella Torino risorgimentale fece sua
l’opzione preferenziale per i poveri
incarnando con piglio ardimentoso
e impavido la sostanza della carità
cattolica: non le bastò aiutare i bisognosi
e i reietti in una filantropia generica,
ma con la sua passione giunse
a smuovere la situazione stagnante
delle carceri torinesi e a cambiare il
sistema educativo fondando le Maddalene,
congregazione femminile per
giovani di ambienti degradati ed ex
detenute, la Scuola Popolare a Borgo
Dora, il primo asilo italiano per i figli
degli operai, il nuovo Ordine religioso
delle suore di Sant’Anna, solo per
citare alcune opere. «Fu una riformatrice a tutto tondo», dice Moreno
Giannattasio che ne racconta la storia,
avventurosa come un romanzo, in
Giulia. La bellezza, l’amore e il vino della
marchesa di Barolo, ottavo volume della
serie “Vite esagerate” in allegato al n. 32 di Famiglia Cristiana.
Juliette Colbert,
vandeana e discendente di quel
Colbert che fu ministro del Re Sole,
come per tutte le famiglie dell’Ancien
Régime subisce la violenza della Rivoluzione
francese (la madre muore
in esilio) e dopo che la sua famiglia
sfugge al massacro in Olanda torna in
Francia, alla corte di Napoleone, dove
nel 1804 incontra l’ultimo discendente
di una delle più ricche e antiche
famiglie piemontesi, Carlo Tancredi
Falletti, figlio del marchese di Barolo. I
due si sposano nel 1806 e si trasferiscono
a Torino, dove Tancredi può occuparsi
della politica cittadina e diventare
sindaco. Vanno ad abitare in una via
dal nome quasi profetico: via delle Orfane.
«Non possono avere figli», spiega
Giannattasio, «e allora insieme fanno
proprio il motto “nessun figlio, tutti
figli”».
Eccola dunque, la brillante marchesa,
mecenate e dama mondana,
interlocutrice nel salotto di casa con
gente del calibro di Cavour, Cesare
Balbo, Alfieri, de Maistre, ambasciatori
e nunzi pontifici, aprire il suo palazzo
ai poveri ai quali lei stessa, dismessi i
sontuosi abiti di velluto, serve la zuppa
calda. Non è una tipa che si accontenta,
Giulia. Alla processione del Corpus
Domini un carcerato recluso sotto
terra al buio urla: «Non la Comunione,
voglio, ma un piatto di minestra».
E l’impavida marchesa chiede al re
di poter visitare le “forzate”, le donne
in carcere. Sono prostitute e disperate
più che assassine e ladre. Non improvvisa,
Giulia, ma ha un programma
preciso, lei che ha visitato le prigioni
modello di Inghilterra e Danimarca
ed è spalleggiata dal marito (consigliere
del re) e da Silvio Pellico. «Non
basta», scrisse, «punire il malvagio
togliendogli la libertà di fare il
male. Bisogna anche insegnargli a
fare il bene». Anticipa di un secolo il
concetto di carcere come luogo di
riabilitazione sociale con un progetto
rivoluzionario. Va tra le detenute,
ridotte a bestie in tuguri infami, per
portare loro abiti, pane, carta, matite,
libri di preghiera. È lei stessa, pian piano,
a insegnargli l’alfabeto e l’Ave Maria
e l’istruzione di base. Ma non si ferma.
Chiede (e ottiene) dal re, scandalizzato,
l’incarico di sovrintendente alle carceri
e fa trasferire nelle Torri palatine, più
luminose e salubri, le detenute. «Bisogna
farsi amare da esse, provando loro
che le amiamo», ripete. È un fiume in
piena, la marchesa: si occupa del reinserimento
nella società di ragazze madri
sole e di trovare un lavoro alle detenute
che hanno scontato la pena per
farle tornare «all’onor del mondo».
Ma come finanziare tutto questo?
«La marchesa, avendo sposato uno
dei nobili più ricchi d’Europa, aveva
un patrimonio di famiglia immenso»,
sottolinea Giannattasio, «ma lei s’inventa
quello che oggi chiameremmo
marketing territoriale e con i proventi
della vendita del vino Barolo, simbolo
del made in Italy nel mondo, impiega
nuove risorse per le attività educative
portate avanti dalle suore di Sant’Anna». Fu il conte di Cavour a proporre
a Giulia di unire le forze e i vitigni di
Nebbiolo per creare un vino raffinato
con tecniche innovatrici. «Marchesa»,
le disse una volta il re, «si dice un gran
bene del vostro vino, pare rivaleggi con
i blasonati di Francia e io non l’ho mai
assaggiato». E lei fa arrivare a corte 325
bottiglie, una per ogni giorno dell’anno,
esclusi, s’intende, quelli di Quaresima.
Dopo la morte del marito nel 1838,
la marchesa porta avanti le opere avviate
insieme e che sono continuate
oggi dall’Opera Barolo. Eroina da film
dal coraggio picaresco, antesignana
dei Santi sociali di Torino, forse santa
(è in corso il processo di canonizzazione),
immaginatela passeggiare con
un adorante Alphonse de Lamartine,
l’amico-intellettuale che la corteggiava
«perché voi, Juliette, siete unica e
grande, ditemi il vostro segreto…». E
lei, abbozzando un sorriso lieve: «Una
voce cara e indulgente mi incita! La
voce di Gesù».