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domenica 23 marzo 2025
 
l'analisi
 

La Russia tra trono e altare, l'icona come ispirazione dello Stato e della Chiesa

07/06/2023  Putin ha fatto spostare d'imperio la Trinità, il capolavoro di Andrei Rublev, dalla Galleria Tretyakov alla cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca. I risvolti politici della religione nella riflessione di don Stefano Caprio, professore di storia e cultura russa, membro del Pontificio Istituto Orientale

Icone in Russia. Tutte le foto di questo servizio sono dell'agenzia Reuters.
Icone in Russia. Tutte le foto di questo servizio sono dell'agenzia Reuters.

di Stefano Caprio

C’è un’espressione molto cara all’attuale patriarca di Mosca Kirill (Gundjaev), che risale al santo medievale Josif di Volokolamsk, secondo cui la Chiesa in Russia è la realtà “istitutrice dello Stato”, gosudarstvo-ustanovitelnaja. Alla fine del Quattrocento questo significava il riconoscimento del ruolo decisivo che la Chiesa ortodossa, allora non ancora patriarcale, aveva assunto nella fondazione dello Stato originario, la Rus’ di Kiev battezzata nel 988 dal principe Vladimir, e nella rinascita della Moscovia dopo i due secoli di dominazione tataro-mongola, intitolata principalmente al principe Dmitrij Donskoj.

Dmitrij era discendente di Ivan I detto “Kalita”, vale a dire “sacco di soldi”, perché aveva fatto emergere quella che era una semplice stazione di posta sul fiume Moscova, in mezzo agli altri principati storici a partire dagli inizi del Trecento, quando ormai Kiev era un ricordo del passato, essendo stata rasa al suolo dai tartari (sarebbe riemersa solo tre secoli più tardi). La ragione fondamentale della fortuna di Mosca fu proprio quella economica, sfruttando i vantaggi delle raccolte fiscali a favore dell’Orda d’Oro, e a scapito degli altri centri della Rus’ occupata. Tuttavia, non fu questa l’unica ragione, e forse nemmeno quella principale: a Mosca si era insediato il centro principale dell’Ortodossia russa. Il primo capo fu Petr (Volynianin), proveniente dai territori occidentali (la Volynia, oggi divisa tra Ucraina e Polonia), che mantenne il titolo di metropolita di Kiev, con residenza a Mosca, nel monastero detto appunto “di Pietro”, il Petrov Monastyr.

 

Dmitrij assunse l’eredità moscovita alla fine del secolo, e trovò la forza per infliggere ai mongoli nel 1380 la prima storica sconfitta del Kulikovo Pole, il “Campo delle Beccacce” nella zona del fiume Don, da cui il soprannome di “Donskoj”, poco più a nord dei territori del conflitto attuale tra Russia e Ucraina, il “Donbass”, terra simbolica della santa Russia. La vittoria dei russi fu ispirata dagli ecclesiastici, in particolare dal monaco San Sergij di Radonež, il grande evangelizzatore della Russia settentrionale, una specie di San Benedetto slavo-orientale. Sergij non si limitò a una benedizione e un predicozzo, ma inviò insieme al principe due suoi discepoli, i monaci-guerrieri fratelli Andrej Osljaba e Aleksandr Peresvet. Il secondo fu scelto per il duello d’apertura dello scontro, contro il campione dei tartari Temir-Bej, che fu sconfitto e umiliato dal monaco, vittoria che scatenò l’ardore dei moscoviti.

Il principe voleva che Sergij diventasse egli stesso metropolita, ma il santo si sottrasse al conflitto ecclesiastico, visto che c’erano altri quattro pretendenti, due dei quali si erano precipitati a Costantinopoli per avere la benedizione del patriarca ecumenico. Il santo abate volle invece fondare un nuovo monastero, dopo gli anni passati al convento “Andronikov” di Mosca, e si allontanò dalla capitale di una settantina di chilometri, nel luogo che divenne poi il paese a lui intitolato di Sergiev-Posad. Venne così fondato il più grande e importante monastero della Russia, la Lavra della Santissima Trinità di San Sergio, imitazione di quello antico delle Grotte di Kiev, ma senza la collina delle grotte, essendo disteso in una vasta pianura.

Il convento è diventato un insieme di chiese e palazzi, tanto da essere chiamato in seguito il “Vaticano russo”. La dedica alla Trinità non era casuale: indicava la riunione della Rus’ di Kiev con la Moscovia vittoriosa, aggregando la terza persona nei territori orientali sottratti agli asiatici. Da allora l’ideale della Russia divenne la sobornost, la riunificazione dei popoli e delle nazioni, sotto l’ala protettiva dell’Ortodossia russa.

Sergij aveva molti discepoli, il più importante dei quali fu il santo Stefan di Perm, che andò a evangelizzare il popolo pagano dei Komi ai vertici dei monti Urali e vicino all’Artide. Un altro umile seguace, che aveva passato il noviziato con Sergij a Mosca, era il giovane monaco Andrej Rublev. Il padre spirituale lo aveva affiancato al grande maestro iconografo bizantino Feofan, Teofane “il Greco”, che insegnava ai russi come dipingere le sacre immagini per la liturgia. Esiste ancora oggi una chiesa del Cremlino, la cappella dell’Annunciazione del Signore, con una doppia serie di immagini sacre sui piani dell’iconostasi davanti all’altare, una di Andrej, e una di Feofan; proprio in questa cappella, nelle recenti feste pasquali, il presidente Putin si è fatto ritrarre da solo, con la candela in mano, davanti alle meravigliose icone greco-russe della rinascita.

Andrej Rublev, dopo la morte prematura di Sergij, ebbe l’arduo compito di rappresentare lo spirito della nuova Russia, vincitrice sui pagani asiatici, che in seguito divennero tutti musulmani. Egli non era un guerriero, né un gerarca capace di comandare sull’istituzione. Era un pittore, o meglio uno “scrittore” di icone, che sono considerate nella tradizione bizantina come una Sacra Scrittura in colori. Egli cercava la sintesi delle tradizioni antiche, che la Russia aveva ricevuto, ma non erano di sua produzione: la liturgia bizantina, considerata l’espressione più vicina a quella degli angeli del cielo, ma anche il cupo cristianesimo germanico, che aveva tentato di penetrare la terra degli slavi, e l’eclettismo asiatico dei tatari, popolazione turanico-mongolica, da cui hanno avuto origine i grandi imperi della Cina, dell’India, della Corasmia, della Turchia e del Medio oriente, fino all’Orda che invase la Russia e metà dell’Europa.

 

Nell’icona della Trinità di Rublev c’è tutta la perfezione dell’arte bizantina, e tutta la passione della pittura rinascimentale. In questo ha davvero ragione il patriarca Kirill: è la Chiesa istitutrice, non solo dello Stato russo, ma dell’anima universale del cristianesimo, che unisce le religioni e le culture, le tradizioni e le scoperte dello spirito. Il soggetto dell’icona è quello su cui tanto si è discusso nella Chiesa d’Oriente, e soprattutto in Russia: l’episodio del diciottesimo capitolo della Genesi in cui si narra la visita ad Abramo dei tre pellegrini alle Querce di Mamre, con la profezia della nascita del figlio di Sara, il “figlio della Grazia” da cui ebbe origine la discendenza del popolo eletto. È una cena di comunione e rivelazione, in cui Rublev ha saputo combinare i colori e gli sguardi, i movimenti e i dettagli, i soggetti e le proporzioni con una vivacità che in Occidente hanno saputo riprodurre soltanto i più grandi, da Raffaello a Michelangelo, da Caravaggio a Rembrandt e tanti altri. Le icone di Rublev, per la loro capacità espressiva, potrebbero essere paragonate perfino ai quadri di Van Gogh.

Rublev diede vita alla grande “scuola russa” delle icone, che nella storia dell’arte e della devozione ha talmente soppiantato quella greca originaria, che noi conosciamo nomi e cognomi soltanto degli interpreti russi. L’icona rappresentò la rinascita della Russia, quando perfino le lettere erano incapaci di interpretare l’anima del popolo, tanto che la letteratura russa dovette attendere almeno altri due secoli per svilupparsi. Non stupisce allora che la Russia di oggi attribuisca tanta importanza alle immagini sacre, a partire proprio dalla Trinità di Rublev, in una fase storica in cui cerca nuovamente di riaffermare la propria identità: prima con la rinascita religiosa e la ricostruzione delle chiese distrutte dall’ateismo sovietico, poi con una grande campagna di affermazione degli antichi valori cristiani in un mondo ormai secolarizzato, giunta fino alla decisione putiniana estrema, cercando di difendere la religione con la guerra e la distruzione dei “fratelli ucraini” rivolti verso l’Occidente “satanico”, come afferma la propaganda di Stato.

Oggi le icone non vengono soltanto sottratte ai musei per innalzarle nuovamente alla gloria della “Chiesa di Stato”, come la Trinità che campeggia al centro della cattedrale moscovita del Santissimo Salvatore, rinchiusa in una teca super-tecnologica che ricorda molto il mausoleo di Lenin sulla piazza Rossa, nella speranza che non diventi un pupazzo grottesco come la salma del profeta della rivoluzione. Vengono dipinte immagini sacre sui corpetti corazzati dei soldati, sia russi che ucraini, tanto che una di queste “icone belliche” è stata regalata dal presidente ucraino Zelenskyj a papa Francesco, durante la recente visita a Roma. La Trinità è stata arruolata nell’esercito invasore, e rimane solo da sperare che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, almeno loro che sono fonte della grazia vivificante, siano in grado di raggiungere un accordo di pace tra Russia e Ucraina, tra Oriente e Occidente, tra Dio e l’uomo.

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