Il suo romanzo Cambiare l’acqua ai fiori (e/o) è stato un fenomeno letterario senza precedenti: per settimane in testa alla classifica dei libri più venduti in Francia, in Italia ha venduto 1 milione e mezzo di copie ed è stato il libro più chiesto in prestito nelle biblioteche. Valerie Perrin, con i suoi quattro romanzi finora pubblicati (l’ultimo Tatà, uscito in Italia a novembre ha al momento venduto da noi 250.000 copie) , è stata tradotta in trenta Paesi, e la sua recente partecipazione al Salone del libro di Torino ha raccolto una partecipazione di pubblico che di solito si tributa alle rock star. È in quell’occasione che l’abbiamo incontrata per una lunga chiacchierata che ha spaziato dalla sua infanzia, al suo lavoro di sceneggiatrice per il secondo marito, il regista Claude Lelouch, dall’amore per la famiglia e gli animali, ai temi della fede.
Partiamo da Greugnon, il paese in cui è cresciuta e in cui è ambientato Tatà. Come è stata la sua infanzia?
«Arrivai lì a un anno perché mio padre, militava nella locale squadra di calcio. Era un comune piccolo, che richiamava molti lavoratori anche stranieri perché sede di una importante fabbrica, quindi sono cresciuta in un ambiente molto aperto, una comunità solidale. Eroi già innamorata delle storie, in particolare emi piaceva ascoltare quelle degli anziani del paese, ed è a loro che poi ho pensato quando ho scritto il mio primo o romanzo, I Quaderni dell’amore perduto».
Come mai un esordio così tardivo nella letteratura?
«Per scrivere un romanzo bisogna avere il tempo giusto, almeno per me è stato così. Prima ero stata molto impegnata come madre, e mi sono dedicata ad altre professioni affini alle storie, come la fotografia e la sceneggiatura. Una volta che i figli sono diventati grandi, quella storia che coltivavano in me da anni ha avuto il tempo giusto di uscire. Ha stupito anche me che l’editore a cui l’aveva mandata decidesse subito di pubblicarla, e incredula del successo che ha avuto, con tredici premi vinti».
Le sue protagoniste sono donne che in modi diversi raccontano storie. Ci ha messo qualcosa di lei in ognuno di queste donne?
«Sì, certo, come peer molti autori dentro i miei romanzi ci sono parti di me, della mia infanzia, delle persone che ho incontrato. Prima di scrivere inoltre, e una nuova storia faccio una sorta di lavoro giornalistico, vado a intervistare perone che hanno ruoli affini ai miei personaggi, per esempio ho fatto una vera full immersion nel mondo dei custodi dei cimiteri. E le assicuro che nella vita di reale ci sono storie così drammatiche e incredibili che spesso evo censuarmi quando scrivo per paura che il lettore poi le giudicherebbe esagerate».
Nina, una delle protagoniste di Tre, trova in un canile la forza per ricominciare dopo tanti traumi. Che ruolo hanno avuto gli animali nella sua vita?
«E vorrei ricordare che anche pappa francesco aveva sottolineato l’importanza dell’amore per tutte le creature a partire dalla scelta del nome di Francesco d’assisi, il santo degli animali. Ricordo l’incontro che ebbi con lui quando convocò a Roma, nella cappella Sistina, duecento artisti per sottolineare come fosse importante il nostro ruolo nel testimoniare la bellezza e l’amore».
Le sue storie sono attraversate da una profonda spiritualità. In tatà il ruolo della chiesa e di un sacerdote è molto importante. Lei che rapporto ha con la religione?
«Quel sacerdote è un voluto omaggio al parroco della mia infanzia, quello con cui ho fatto il catechismo e che tanto si spendeva per la comunità. Io ho una particolare devozione alla Madonna, ci sono sue rappresentazioni nelle due cose in cui vivo, una a Parigi e una in Borgogna e la porto sempre come me al collo in questa medaglietta (e così dicendo ci mostra un ciondolo azzurro). Credo che ci sia un rinnovato bisogno di credere, di avere speranza. E confido molto nel nuovo papa e nella sua capacità di incidere con il suo messaggio di pace.
Che legame ha con l’Italia?
«La famiglia mia madre era italiana. Il mio bisnonno, che di cognome faceva Foppa, era del lago di como, emigrò in Francia in biciletta, tanto era povero. Mio nonno nacque in Francia, ma parlava italiano. Io amo molto l’Italia, ci vengo spesso, e stimo in particolare due scrittrici italiane, Martina Angus, autrice del bellissimo Mal di pietra, e Viola Ardone».
Parlando di radici letterarie, si sente un po’ un’erede dei grandi romanzieri francesi dell’800?
«Ho amato tantissimo i romanzi di Zola, come Nanà e Germinal, il dramma umano che raccontano. Ma il mio autore del cuore è Guy de Maupassant, in particolare i suoi racconti».
Ha collaborato alla sceneggiatura del film che tratto da cambiare l’acqua ai fiori diretto da Jean-Pierre Jeunet?
«Il regista mi ha fatto seguire passo passo il lavoro, ma non ho partecipato alla scrittura della sceneggiatura. Lui è rimasto molto fedele al testo, nei miei romanzi, anche proprio in virtù della mia esperienza come sceneggiatrice, ci sono molti dialoghi, che spesso ha riportato in modo fedele».
Che rapporto ha con i suoi lettori?
«Quello che mi sorprende di più è che spaziano dalle quattordicenni alle donne molto anziane, ma ci sono anche molti uomini, è bello sapere di poter arrivare a target così diversi. Incontrarli, rispondere ai loro messaggi mi fa sentier molto grata».
Lei si considera felice?
«Riconoscente alla vita sì, ma quello che per me conta di più è la famiglia, sono orgogliosa di mio figlio di mia figlia, delle persone che sono diventate, dei mie, nipoti, poi mio marito ha avuto sette figli, e la nostra è una famiglia allargata molto unita».