La coincidenza è certo casuale ma si fa notare: parlare di “giustizia riparativa”, di ricomposizione del tessuto sociale lacerato dal reato, attraverso una giustizia penale che non si limiti a un approccio retributivo per cui più grave è il reato, più afflittiva è la pena, mentre infuria in Europa un conflitto che è la quintessenza della lacerazione, ha un che di “scandaloso”. E i relatori del convegno sul tema La giustizia riparativa nella formazione dei magistrati, tenutosi il 14 marzo all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, con la Guardasigilli Marta Cartabia a concludere i lavori, lo sanno bene. Il conflitto Russia-Ucraina è il convitato di pietra e nessuno lo nasconde. Anche se non è di questo in senso stretto il tema di cui si parla.
La giustizia riparativa, per come la definisce Antonio Albanese, che ha il compito di introdurre i lavori: «capovolge la prospettiva: il suo scopo è ricucire il tessuto dei rapporti sociali lacerato attraverso il coinvolgimento attivo della persona offesa, dell’offensore che si è reso responsabile, offrendo un’occasione di porre rimedio». Il concetto è relativamente recente e trova storicamente i suoi principali esempi nei processi di riconciliazione del Sud Africa dopo l’Apartheid e nel processo di pace nell’Irlanda del Nord, ma è un approccio che si sta facendo strada anche come costola complementare, non sostitutiva, del diritto penale comune.
Alla base c’è il concetto di “soddisfazione della vittima” che comunemente si associa alla gravità della sanzione, salvo ammettere che spesso non basta, perché da sola una sanzione retributiva, per quanto severa non riesce a rispondere ai perché che una vittima, in particolare di un reato grave, si pone. O almeno così la vede chi, come i presenti, ha studiato a fondo la giustizia riparativa. Una rivoluzione copernicana. Ma di più una scommessa, non vinta in partenza se è vero che solo nel 2% dei casi, in Europa, questa modalità di riparazione che non si esaurisce nel risarcimento ma che trova il suo fulcro dell’incontro, viene offerta. E se è vero, come è vero, che dopo millenni di tradizione retributiva, questa concezione rivoluzionaria non può essere data per assodata, ma suscita anzi anche tra gli addetti ai lavori molte domande e parecchi scettismi. E per certi versi è un peccato che al convegno nessuna di queste numerose voci critiche o dubbiose della reale efficacia sia stata ospitata, per dare corpo a un confronto dialettico che avrebbe forse maggiormente illuminato il tema centrale.
«L’incontro tra autore e vittima», spiega Gabrio Forti, «è la prima cosa che viene in mente, ma il concetto di giustizia riparativa coinvolge la comunità: l’autore incontra la comunità non solo la vittima e la vittima deve sentire la comunità con sé. Tutti coloro che partecipano a un percorso riparatore sono avviati a incontrare una parte di sé attraverso l’altro. Hanna Arendt diceva: “il pensiero e la coscienza sono un silenzioso soliloquio con sé stessi. Non potrei fare il male perché passerei la vita a dialogare con un malfattore”. Nelle vicende di questi giorni a parte il pensare al motore di questa macchina infernale criminale, penso a centinaia di migliaia di russi che in nome dell’obbedienza avranno un malfattore dentro di sé».
Al centro del convegno il tema della formazione in tema di giustizia riparativa, non scontato fino a pochi anni fa, degli operatori del diritto e dei magistrati e l’esperienza del progetto re-justice condotto mettendo al lavoro insieme università e scuole di magistratura di quattro Paesi. Un tema che le riforme in corso stanno facendo entrare a pieno titolo nel nostro sistema penale con la legge 134/2021 che contiene una delega per una disciplina organica della giustizia riparativa: «Si tratta», spiega Giorgio Lattanzi, presidente della Scuola superiore di Magistratura e già giudice della Corte costituzionale «di un mondo tutto da disciplinare, a partire dalla definizione di vittima, familiari compresi, per passare all’accesso a programmi di giustizia riparativa in ogni stato e grado del processo e durante l’esecuzione della pena, fino alla formazione dei mediatori e alle garanzie in rapporto alle dichiarazioni rese».
Qualcosa che si può fare, come spiega Enrico Maria Mancuso, a partire dall’esistente, da istituti che già ci sono nel sistema e muovono in questa direzione: l’archiviazione per la tenuità del fatto, la messa alla prova anche per adulti...
La giustizia riparativa è l’esatto opposto del populismo penale che si sintetizza nel “buttare la chiave”, Gaetano Silvestri che ha dato prima di molti altri fiducia al ruolo anche formativo della giustizia riparativa scontrandosi con un clima non propizio, si sofferma sulla formazione dei mediatori e mette in guardia da due pericoli: «Il rischio da evitare che tutta questa materia scivoli verso un mieloso perdonismo, che si traduca in un “mi sono pentito e tu ti devi accontentare”, perché non serve a una ricomposizione. E il rischio della finta adesione: sarà capace il mediatore di capire se l’autore che aderisce al programma di giustizia riparativa lo fa come alcuni “pentiti” di mafia solo per accedere a benefici? Attenti ai trionfalismi siamo lontani da una cultura diffusa anche tra i giuristi».
Alcuni temi ricorrono negli interventi tra Valerio Onida, Gian Luigi Gatta, Gianluca Varraso: il fatto che un programma di giustizia riparativa non possa essere imposto, né all’autore né alla vittima ma che possa agire solo su adesione volontaria; il fatto che la giustizia riparativa abbia dei tempi che non possono essere preordinati e che quindi non necessariamente agisca nell’ottica deflattiva o efficientista che si richiede al sistema in fatto di durata, ma sia una ricerca dice Onida di «Giustizia più alta».
Che cosa sia questo concetto di giustizia alta lo sintetizza con una citazione dal romanzo Apeirogon, che ha per protagonisti i padri di due ragazzine una israeliana l’altra palestinese uccise in attentati, Claudia Mazzuccato, tra le principali promotrici della giustizia riparativa in Italia: «A di là del giusto e dell’ingiusto c’è un campo, ti aspetterò là”. Là è il luogo dell’incontro. La terra della pari dignità, dove però giusto e ingiusto non vengono negati. E là c’è il punto cruciale perché è scandaloso e improbabile far incontrare il più crudele dei colpevoli e la più fragile delle vittime sul terreno della pari dignità senza equidistanza».
Di questo “scandalo” si fa carico in qualche modo la ministra Cartabia concludendo i lavori, nel narrare l’esperienza con cui ha scoperto il tema della giustizia riparativa, non nega le obiezioni ma prova a rispondervi in modo convincente perché comprensivo delle ragioni dei diffidenti: «Di fronte al mistero del male e del dolore che sempre accompagna ogni fatto di ingiustizia, la sentenza e la giustizia di cui non possiamo fare a meno lasciano sempre un’insoddifasfazione. La domanda di risposte sempre più esigenti rivolta alla giustizia penale, rispetto al male generato dal crimine, va presa sul serio: non possiamo dire” vabbè chiudiamo a un occhio”, dobbiamo chiederci se quella risposta con pene più severe vada nella direzione giusta o se ci voglia qualcosa di nuovo per rispondere a una domanda che è di senso».
L’altra questione: «Come si innesta questo “nuovo” su un percorso che ha una storia plurisecolare? Stiamo dicendo che abbiamo sbagliato tutto in fatto di pena o stiamo parlando di cose diverse? Ci dobbiamo muovere su un’idea di complementarietà perché ci sono incomprimibili istanze di contenimento della libertà del condannato quando c’è bisogno di protezione della società davanti al rischio di reiterazione dell’illecito». La conclusione torna al presente da cui si è partiti: «L’incontro ribalta il paradigma cui siamo abituati: mette al centro l’avvicinarsi anziché il prendere le distanze. (...) Ditemi se davanti a un conflitto, a partire dal litigio in casa, il primo istinto non è prendere le distanze, ditemi se non è nuovo pensare a una soluzione che nella piena libertà, nel rispetto dei tempi, delle sensibilità, chiama a un sedersi a un tavolo comune. Una modalità controreattiva ma profondamente corrispondente a quello che andiamo cercando, che è ricucire il rapporto che non avremmo voluto vedere frantumato». Si può insegnare? È la domanda da un milione cui il convegno prova a rispondere: «Quello che è convincente è il racconto dei protagonisti che ha dentro tutto il vissuto, altrimenti c’è una predica che non convince nessuno. E poi serve far conoscere i dati: chi da tanto tempo studia ha prove che uno dei settori in cui la giustizia riparativa dà migliori frutti è dove ci sono reati di sangue, anche questo va contro le nostre intuizioni. (...) Si tende a pensare che reinserimento sociale e bisogno di sicurezza siano esigenze contrapposte e invece vanno insieme, più hai una pena costituzionalmente orientata più alzi i parametri di sicurezza. Non parliamo di un mondo di favole con l’happy handing, da incontri di giustizia riparativa non si esce amici, con una poco realistica riconciliazione, ma con un sollievo liberante».
La giustizia riparativa è utile? «Sono solidamente convinta per come l’ho vista nascere che la giustizia riparativa vale per tutti i tipi di conflitto, con una gradualità ha un orizzonte potenzialmente sconfinato che deve crescere. Facciamone il cuore dell’educazione alla cittadinanza che è l’imparare a stare con l’altro che alla scuola materna ti porta via il pennarello mentre dipingi, i conflitti esistono da subito: da quando arriva un neonato in casa e il fratellino più grande soffre le attenzioni della mamma al nuovo venuto, passando per conflitti degli adolescenti, fino alla guerra Russia-Ucraina».
Anche se è proprio il conflitto in corso a dare la prova di quanto impervia sia la strada della mediazione, a far toccare la difficoltà di districarsi tra realtà, opzioni di progresso, ottimismo della volontà e utopia.