Nella mole di commenti del giorno dopo sulla “manovra dei mille euro in tasca” c’è un dato politico di lungo periodo rimasto in controluce. Riguarda le coperture - evidentemente ancora tutte da specificare come si sbraccia a dire la destra - ma attiene al ruolo che l’Italia intende assumere da qui in avanti in Europa. E’ indubbio infatti che la mole di provvedimenti prospettati dal premier non possa finanziarsi esclusivamente con tagli alla spesa. Non basteranno le acrobazie pur meritorie del tagliatore Cottarelli, se si considera che per il periodo 2014-2016 sono già in agenda tagli per 28 miliardi di euro. Renzi, che ha una moglie insegnante, sa che non si può chiedere oltre a settori come la Scuola o la Sanità e in generale alla spesa sociale, ciò che gli costerebbe una guerra dagli esiti incerti con la sinistra interna al Pd e con il sindacato intero e avrebbe addirittura effetti recessivi.
Non resta dunque che una seconda via: ipotizzare che la manovra si muova in deficit. Sfiorando e forse sforando il famoso tetto del 3% di rapporto tra deficit e Pil fissato in sede europea per volontà innanzitutto di Angela Merkel. E’ questa la vera partita di politica economica sottesa al suadente discorso renziano. Oltre le slide, oltre il parlare diretto agli italiani, oltre le espressione di colore, a “doversi fare una ragione” non sarà tanto il sindacato, quanto Bruxelles e il mainstream economico fin qui prevalente a Francoforte tra le stanze della Bce.
Senza dirlo troppo apertamente, ma agendo decisamente sulla domanda (più soldi in busta paga, maggiori consumi, più fiato alle imprese) Renzi sta cioè smarcandosi decisamente dall’asse Letta-Saccomanni e dall’ortodossia europea dei conti in ordine. Sta ponendo una seria ipoteca su un processo di revisione del cosiddetto fiscal compact, ovvero quell’insieme di buone regole di finanza pubblica fissate all’indomani della grande crisi del 2008, quando le grandi banche da salvare con soldi pubblici succhiavano risorse anche a Gran Bretagna, Francia e, poco detto, anche Germania. In sintesi, Renzi pare avere compreso che non ci si può più muovere sul sentiero stretto che sta tra un deficit intoccabile e una spesa incomprimibile. Ed è deciso a fare saltare il primo dei due paletti , non il secondo.
A dare forza a questo suo piano sono i dati. La disciplina di bilancio pubblico à la Merkel non ha ridotto ma semmai aumentato il debito pubblico dei Paesi europei, salito dal 65% del 2008, anno primo della grande crisi Lehman, al 95% del 2013. La ricetta tedesca insomma non ha centrato l’obiettivo. Ha avuto alti costi sociali e scarsi effetti di finanza. Ha creato malcontento verso l’Europa, sentita sempre più matrigna. Ha dato benzina a mille piccoli e grandi fuochi nazionalisti uniti dal no “all’Europa dei contabili”.
Di tutto ciò Renzi non può che essere pragmaticamente consapevole. Mentre faceva il sindaco di Firenze ha avuto tempo e modo di studiare il caso Grecia – in questo seguendo i “consigli” del suo arci-nemico D’Alema di assumere caratura europea - e non vorrà far fare al Pd la fine del Pasok, rimasto schiacciato sotto il lavoro sporco di pulizia contabile assegnatogli dal Fondo Monetario internazionale e da Berlino. Il risultato sono state lacrime e sangue per il Paese, ferite aperte sulla carne viva dei lavoratori. Gli effetti si vedranno alla prossima tornata elettorale europea di maggio. Sarà a quel punto che si potrà calendarizzare la riforma delle riforme: ridiscutere in sede europea il vincolo di bilancio al 3%, tabù fin qui intoccabile. Che tocchi al giovane Matteo riuscire a dire no alla navigata frau Merkel?