Nelle scorse settimane è stata dichiarata l’emergenza alimentare in Somalia. L’appello internazionale in favore delle popolazioni del Corno d’Africa richiama le contraddizioni di un pianeta in cui un miliardo di persone getta derrate alimentari deperibili non consumate e sostiene assurdi ‘costi collaterali’ causati dall’abbondanza (le diete, il fitness dimagrante…), mentre un altro miliardo non ha pane a sufficienza.
Le preoccupazioni relative al cibo però non riguardano solo l’emergenza di questi giorni, ma alcuni squilibri strutturali rivelati dall’estrema volatilità dei prezzi registrata negli ultimi anni. Tra il 2006 e il 2008, infatti, l’indice generale dei prezzi alimentari calcolato dalla Fao è raddoppiato, per poi riscendere ai valori precedenti il 2006 in soli due mesi tra luglio e agosto 2008. A metà 2010 i prezzi sono di nuovo impazziti, raggiungendo i massimi del 2008 nel gennaio 2011. Da quel momento sono stabili, ma a livelli elevatissimi e insostenibili per la popolazione più povera del pianeta.
Che cosa spinge così in alto i prezzi? Un primo fattore è legato al cambio climatico, quello forse più importante per l’attuale Somalia (anche se le mutazioni in corso, e la relativa desertificazione, colpiscono duramente anche altre aree del pianeta). La maggiore frequenza di fenomeni atmosferici violenti, soprattutto nelle zone tropicali, determina un succedersi di siccità e alluvioni che rendono i raccolti più vulnerabili. Minori raccolti significa minore offerta e dunque pressione sui prezzi. Un secondo fattore è dovuto all’aumento demografico, cui si compone il miglioramento della condizione di una parte della popolazione povera in India e in Cina. Ci sono cioè, e questa è una buona notizia, persone che guadagnano di più e mangiano meglio di prima. Una percentuale relativamente piccola di popolazione che vive questo miglioramento in paesi grandi come la Cina e l’India significa milioni di cittadini, dunque un fenomeno che inizia a farsi rilevante. Queste persone domandano più carne e derivati del latte, ciò comporta una spinta ad aumentare i capi di bestiame e quindi una maggiore domanda di mangimi. La produzione di cereali per consumo animale può spiazzare quella per consumo alimentare, sottraendole superfici da coltivare, quindi riducendo la produzione e spingendo sui prezzi.
Un terzo fattore è quello legato alla produzione di agrocarburanti. Aumentano le colture di soia e altri cereali usati per produrre combustibili con impatti ambientali ridottissimi. Anche questo può sottrarre terreni alla produzione alimentare premendo sui prezzi. Quarto elemento è il prezzo del petrolio, che incide su trasporti e fertilizzanti e quindi sui prezzi. Inoltre, se il petrolio è caro, diventa maggiore l’incentivo a produrre agrocarburanti, amplificando le ricadute negative della loro coltivazione.
Questi elementi concorrono a spiegare un trend di aumento dei prezzi, ma non la sua intensità, né la riduzione dei prezzi della metà del 2008: il ceto medio nei paesi emergenti non si è ridotto né i fenomeni meteo sono più rari. Solo col petrolio potrebbe esserci una correlazione teorica, visto che petrolio e cibo subiscono una caduta dei prezzi analoga, ma un’analisi più approfondita la smentisce: durante la caduta del 2008 i fertilizzanti non hanno ridotto il loro prezzo e i costi di trasporto sono stati appena più contenuti. Infine in termini globali la produzione aggregata nel pianeta in questi anni è aumentata. La produzione di mangimi e biodiesel non ha spiazzato quella alimentare, ma ha usato superfici nuove (è il caso del biodiesel in Africa e nel Sud del mondo) o sfruttato miglioramenti di produttività.
Per spiegare le impennate dei prezzi alimentari e soprattutto la loro intensità, occorre guardare al mercato finanziario. Da qualche anno si investe sui beni alimentari attraverso i cosiddetti derivati. Questi sono titoli che ‘derivano’ il loro valore dall’andamento di un’altra grandezza, detta sottostante. Se il sottostante cresce il derivato vale di più e viceversa. Negli ultimi anni è fortemente aumentato il numero di derivati che hanno scommesso sull’aumento dei prezzi alimentari. La aspettativa di aumento dei prezzi si è trasferita sui mercati reali facendo alzare i prezzi anche in assenza di reale scarsità.
Per le materie prime agricole, infatti, il prezzo attuale è determinato da quello atteso, attraverso il meccanismo dei futures, un particolare titolo in cui si stabilisce oggi il prezzo a cui ci si scambierà la merce domani. Se tutti attendono per domani un prezzo maggiore, è naturale che il prezzo di oggi tenda ad aumentare.
A questo si possono aggiungere comportamenti speculativi considerati illegali a livello nazionale, ma non regolati da leggi a livello internazionale, per cui in un mercato globale fortemente integrato come quello finanziario i pochi intermediari delle materie prime agricole possono giocare sulla loro posizione e sulle loro informazioni privilegiate per influenzare i mercati e guadagnare finanziariamente attraverso i derivati.
Le speculazioni di pochi, insomma, concorrono a incidere sulla fame di molti, di troppi.
Che fare? Occorre una riflessione su tecniche, luoghi e
distribuzione della produzione (per aumentare la produzione locale e
ridurre i costi di trasporto, che incidono anche sulla qualità
dell’ambiente). Insieme a questa è urgente una riflessione rigorosa
sulla governance del mercato finanziario, per farlo tornare uno
strumento al servizio della produzione e riportare i titoli futures alla
loro funzione originaria di garanzia contro la volatilità dei prezzi .
Da essa si sono allontanati diventando amplificatori delle variazioni
che il mercato reale naturalmente produce rendendole insostenibili.
Il tema è nell’agenda della Fao, di tutte le reti della società civile e
del G20. Le prime proposte sono state formulate. In Italia è nata la
campagna “Sulla fame non si specula” che ha chiesto al sindaco di
Milano di vendere i titoli derivati legati al cibo posseduto dal Comune
e creare un “Osservatorio” sulla relazione tra finanza e prezzi
alimentari in vista dell’expo 2015, che utilmente si intitola “Nutrire
il pianeta”. A livello nazionale, e in dialogo con le reti
internazionali, la rete Gcap, la Coalizione italiana per la lotta contro
la povertà e il Comitato per la sovranità alimentar e hanno formulato
proposte tecnicamente circostanziate.
Ora tocca alla politica dimostrare disponibilità all’ascolto e iniziativa.