Il fumo nero si vede già dallo svincolo dell’autostrada. Poi immondizia, sporco, ragazzi che mettono la droga in vena appena al di là della sterpaglia. Le campagne avvelenate si stendono attorno. I pilastri dei cavalcavia sono corrosi dalle esalazioni tossiche. I palazzi grondano intonaci scrostati. All’ombra dei pochi alberi l’aria entra nei polmoni nauseabonda e graffiante. Benvenuti a Caiano, al confine tra Napoli e Caserta. Benvenuti all’inferno.
Un inferno che inghiotte sempre più vittime, malate di tumore: il 47 per cento in più che nel resto d’Italia. Don Maurizio Patriciello, parroco di San Paolo apostolo, combatte il degrado stando vicino alla sua gente, respirando con loro lo stesso pericolo di morte. Firmando petizioni e denunce. Accendendo i riflettori su questa terra violentata di cui ormai tutti hanno paura. «Abbiamo , in questa zona, le stesse malattie che hanno nelle zone a più alta densità industriale», dice sconfortato, «ma qui le industrie non ci sono».
Sull’altare ha messo dei pomodori al posto dei fiori: «Non toccateli. L’Arpa ha certificato che sono nocivi anche solo al tatto». Pomodori belli, sani all’aspetto, che fanno venire l’acquolina in bocca. «Ditemi come fa una mamma di famiglia a sapere che questi prodotti dall’aspetto così invitante hanno un cuore avvelenato, come possono distinguerli dagli altri. Per anni non abbiamo immaginato cosa covava nelle viscere di questa terra, quali veleni le industrie, soprattutto del Nord, hanno sversato da queste parti». I fanghi di Porto Marghera, quelli dell’Acna (Azienda coloranti nazionali e affini) di Cengio, gli scarti industriali di molte delle fabbriche che vanno dal Piemonte al Veneto sono finiti interrati in Campania. Complici la camorra, gli “industriali criminali” e i politici corrotti le campagne rese fertili dal Vesuvio sono diventate fabbriche di morte.
E mentre parliamo, il telefonino del don, anzi di padre Maurizio, come è da tutti conosciuto, non smette di squillare. Ogni telefonata una storia nuova di malattia e di morte. Ne ha celebrati tanti di funerali, don Patriciello. «I funerali dei ragazzi che ho visto crescere, affacciarsi alla vita. A ogni nuovo battesimo non posso non pensare alla sorte che attende queste nuove generazioni». Come quella toccata a Dalia, 12 anni, a Luca, 19, a Luciano, 16, a Tina, 28, a Marta, 4. «Ho celebrato a novembre i funerali di Agostino, 28 anni, e a gennaio il battesimo di suo figlio nato un mese dopo».
La frangia tagliata lunga e le lenti nascondono solo in parte l’emozione degli occhi quando racconta la storia dei suoi ragazzi. «Quando un bambino, un giovane si ammala di queste malattie l’intera famiglia viene distrutta. Da queste morti non ci si riprende più». Parla mostrando i grandi poster che sta facendo fare col primo piano di ogni persona che muore. «La loro morte deve servire a cambiare le cose. Non possiamo condannare alla malattia o all’esilio i nostri figli».
Quando il ministro per l’ambiente Andrea Orlando è venuto a rendersi conto della situazione, scortato da polizia e carabinieri, don Patriciello gli ha spiegato che «anche se questa è terra del clan dei Casalesi, qui non c’è da temere. È la gente che ha paura. Paura di perdere un figlio, se non ne ha già perso uno. Di vederlo morire, se è morto quello dei suoi amici. Paura che non si salvi se è in ospedale». Lo dice con la voce incrinata anche se lui, di morti e malattie, ne ha viste tante negli anni in cui era caporeparto in ospedale.
Perché quella di don Maurizio Patriciello è una vocazione adulta, nata dopo un’esperienza cattolica e una nella Chiesa evangelica, dopo anni di dubbio e poi di allontanamento. «Fino al giorno in cui diedi un passaggio in macchina a un frate francescano scalzo. Mi sono incuriosito e ho cominciato a parlargli. Da tempo mi portavo dentro domande di senso a cui non trovavo risposta, soprattutto dopo la morte di un ragazzo ventenne arrivato in ospedale dopo aver preso una scossa elettrica. Fra Riccardo mi ha ascoltato, mi ha parlato. Mi sono iscritto a teologia e, un anno dopo, ho lasciato l’ospedale per entrare in seminario. Era il 1984 e avevo 29 anni».
L’incarico nella parrocchia di San Paolo apostolo è il primo per don Patriciello. «Un quartiere difficile dove sono stati sommati, soprattutto dopo il terremoto, gran parte delle povertà. Il vescovo mi disse di provare , ma di avvisarlo subito se sentivo che non potevo farcela. Non sono ancora andato».
Nel quartiere, che quasi per ironia della sorte si chiama Parco verde, lo rispettano tutti, soprattutto per questo suo impegno a denunciare i mali che avvelenano anche i figli della camorra. «Ma non sono un prete ambientalista. Don Primo Mazzolari, che è il mio maestro, amava dire che bisogna aiutare l’uomo a essere più uomo. E io cerco di agire da uomo prima ancora che da cristiano. Perché l’impegno per l’ambiente – che significa impegno per la salute, per l’agricoltura, per lo sviluppo – deve essere di tutti. Per la nostra generazione ormai è tardi, ma noi non possiamo smettere di sperare che questa terra possa tornare a essere fertile e sana».
Difficile crederlo guardandosi attorno. Cumuli di cenere denunciano i roghi con i quali si fanno sparire rifiuti tossici del Nord e scarti del lavoro in nero dei piccoli imprenditori locali. Plastica e copertoni come combustibile per i veleni che vengono sparsi nell’aria. «Un fenomeno, questo dei roghi, che ci è valso il soprannome di terra dei fuochi, ma che», denuncia il prete, «alla fine è pure servito a scoperchiare un pericolo ancora maggiore. Perché quello che si vede in superficie è niente rispetto alle tonnellate di veleno che sono state seppellite qui sotto».
Veleni che stanno inquinando le falde acquifere, i terreni, l’aria e che, secondo le inchieste in corso, raggiungerebbero il loro apice di contaminazione nel 2064. Tante denunce degli ambientalisti ma, lo scrive anche Legambiente nel suo ultimo Rapporto, “nessun intervento concreto fino al grido di dolore di un piccolo e sconosciuto parroco che raccoglieva la voce del popolo inquinato”.
Quel grido si è fatto petizione, con primo firmatario il vescovo di Aversa, ed è arrivato anche a Bruxelles. «Nell’audizione dell’8 luglio», racconta don Patriciello, «ho chiesto che dopo le promesse comincino i fatti concreti. Si sta pensando anche a istituire una polizia ambientale europea che costringa i singoli Stati a intervenire in casi come questo». Che si allargano a macchia d’olio. «Dopo la nostra azione, a Caivano, i roghi sono diminuiti, c’è più monitoraggio, è difficile vedere i camion che in questi anni arrivavano dal Nord uscire dallo svincolo autostradale e lasciare qui il loro carico. Ma questo significa semplicemente che lo stanno portando da un’altra parte».
Don Patriciello alza i finestrini della macchina e chiude i bocchettoni dell’aria. Qua attorno c’è anche l’amianto, buttato alla meno peggio, spezzato. «Bisognerebbe equiparare i reati ambientali ai reati di mafia, evitare le prescrizioni, costringere i responsabili a pagare, fare in modo che le molto remunerate bonifiche non siano fatte dagli stessi che hanno inquinato per anni». Da un lato della strada ci sono i campi di asparagi, dall’altro cumuli di veleno. «Sono tra i prodotti più rinomati sulle tavole di tutto il mondo», dice il parroco indicandoli. «Oggi sono avvelenati, ma chissà, con l’impegno di tutti forse questa terra tornerà ancora a essere la Campania felix di una volta».
(Il reportage è stato pubblicato sul numero 29/2013 di Famiglia Cristiana, del 21 luglio 2013)