Con loro, il 29 novembre a Roma, c'era anche il capo dello Stato, Sergio Mattarella. Perché le Acli, nei loro 80 anni di vita, hanno contribuito significativamente allo sviluppo del nostro Paese. E oggi non vogliono tirarsi indietro di fronte alle nuove sfide. «Siamo nati in tempi difficili, a cavallo tra il 1944 e il 1945, in piena guerra. E la nostra storia», dice Emiliano Manfredonia, il presidente rieletto dell’associazione (col 95 per cento dei voti), «è dentro la storia della Repubblica».
In che contesto celebrate questo compleanno?
«Anche se non sono i tempi duri di quando siamo nati, ci sono comunque venti di guerra. Anche questo è un tempo difficile, di disgregazione della coesione sociale e di diseguaglianze. Siamo in una società in cui i ricchi non sanno nemmeno più come contare i propri soldi, le proprie rendite, e c’è gente che cerca soltanto un lavoro decente e non lo trova».
Alla vigilia di questi 80 anni avete perso due dei vostri presidenti storici.
«Purtroppo, a distanza di una settimana, a ottobre, sono scomparsi sia Emilio Gabaglio che Domenico Rosati. Guidarono le Acli in anni difficili. La presidenza di Livio Labor aveva abbandonato il collateralismo con la Democrazia cristiana. Gabaglio confermò quella scelta e avanzò l’ipotesi socialista. Le gerarchie non gradirono, lo stesso Paolo VI ci “deplorò”. Toccò poi a Domenico Rosati, il nostro ottavo e più longevo presidente, ricucire quello strappo. Senza tornare indietro sul collateralismo, ma facendo politica accanto agli ultimi e ai penultimi. Non rinneghiamo quella passione e continuiamo a impegnarci per le fatiche delle persone, per il mondo del lavoro, nell’ambito sociale per sollecitare la politica a rispondere ai problemi».
In quella storia difficile vi aiutò molto padre Pio Parisi?
«Lui è stato un grande punto di riferimento. Il nostro primo accompagnatore spirituale dopo la “deplorazione” e il ritiro degli assistenti da parte della Chiesa. Ci ha insegnato la visuale, da dove guardare il mondo. E cioè dai piccoli. Da lì nasce la sorgente che non fa diventare i nostri pozzi sterili. E che ci permette di camminare con l’umanità ferita, che gioisce, che lavora, che costruisce».
Negli anni siete stati grandi protagonisti sulla scena pubblica. Oggi quanto contano l’associazionismo, i corpi intermedi?
«Certamente noi non siamo più una cinghia di trasmissione per un partito, ma continuiamo a essere dei pungoli. Crediamo che ci siano ancora spazi per incidere sulla politica a partire dai bisogni dei cittadini. C’è una grande crisi di partecipazione, lo vediamo anche con le astensioni nei momenti elettorali. Credo che, proprio per questo, il nostro compito sia quello di stare lì, in mezzo alla gente, anche se siamo un po’ più affaticati di un tempo, per tenere la barra dritta su certi valori. Pensiamo al tema dell’ambientalismo, che oggi è una sfida culturale ed esistenziale. E pensiamo anche al nostro specifico, cioè al tema del lavoro».
Su cosa vi state concentrando?
«Abbiamo fatto uno studio che abbiamo chiamato “Lavorare dispari” sulla differenza di reddito tra donne e uomini a parità di condizioni di lavoro. Abbiamo visto che il lavoro femminile, soprattutto al Sud, è meno remunerato rispetto ai colleghi maschi. E poi ci stiamo focalizzando sul lavoro povero. Prima chi trovava occupazione usciva dalla povertà. Oggi non è più così. Il nostro studio propone una terza via rispetto alle proposte attuali di salario minimo e reddito di cittadinanza che è il “salario costituzionale”. L’articolo 36 della nostra Carta dice che il lavoratore deve avere un compenso che garantisca a lui e alla sua famiglia una vita dignitosa. Abbiamo elaborato un calcolo un po’ complesso tra la media dei salari delle contrattazioni e altri indici che comprendono il costo della vita per calcolare la giusta remunerazione. Sapendo anche che il lavoro non degno fa arretrare pure il welfare, mette i poveri contro i poveri, indebolisce il sistema pubblico di previdenza. Noi chiediamo una riforma strutturale sul tema, non aggiustamenti di anno in anno in base alla Legge di bilancio».
Riguardo la sicurezza sul lavoro?
«L’attenzione è una nostra priorità. E vorremmo si facesse di più sulla prevenzione. Andrebbero incentivate le aziende virtuose e andrebbero prese in considerazione anche le denunce anonime. La sicurezza non dipende solo dalla formazione del lavoratore. Va fatta una lotta seria allo sfruttamento, al caporalato, vanno monitorati meglio gli appalti e i subappalti».
Quali sono i valori delle Acli che sono rimasti e che resteranno per i prossimi 80 anni?
«Il valore principale è quello della persona. Anche la Costituzione è stata costruita secondo questo principio che aveva unito culture politiche diverse. Continuiamo a dire che i diritti ci sono, che sono di tutti e che hanno forza in sé, per questo devono essere riconosciuti. Pensiamo che questa sia una nostra missione: l’attenzione a una democrazia dal basso, sostanziale. E, insieme, la fedeltà al Vangelo, con la vicinanza alle persone ferite, ultime, con cui camminare senza giudicarle, ma aprendo le porte delle nostre strutture, delle nostre parrocchie. Per essere davvero Chiesa che si sporca le mani, ma che è in uscita».