Un quotidiano brasiliano dell'epoca riporta in prima pagina la vicenda dell'espulsione di don Vito.
Di Brasile in questi giorni si parla per le Olimpiadi. Le battaglie per la terra e lo sfruttamento, di oggi e di ieri, sono finite in ombra. Allora vale la pena di raccontare una storia poco conosciuta. Protagonista un missionario italiano.
Recife, 1980. Don Vito Miracapillo, all’epoca trentatreenne, viene espulso dal presidente João Figuereido, dato che lo «straniero non può esercitare attività di natura politica, né immischiarsi direttamente o indirettamente negli affari pubblici del Brasile». Accadeva in un momento di forte scontro tra la giunta militare e la Chiesa brasiliana, che provò a difendere il prete pugliese, “colpevole” di aver lottato per i diritti dei suoi parrocchiani. Ripercorriamo la vicenda insieme a don Vito.
In questa e nelle immagini che seguono don Vito e i sui parrocchiani, nella seconda metà degli anni '70.
‒ Da Andria al Pernambuco, dal profondo sud italiano al profondo nord-est brasiliano. Qual era la situazione?
«Appena ordinato prete, fui mandato missionario a Ribeirão, vicino a Recife, per tre mesi nel 1974 e come parroco dall’ottobre 1975. Qui, tra le 45 mila persone della città, solo un migliaio viveva bene, il Pernambuco era uno degli Stati più poveri del Paese. A Ribeirão, tutti erano sfruttati per 16 ore al giorno nei latifondi della canna da zucchero, per il corrispondente di 14 mila lire al mese, cioè un’elemosina al posto dello stipendio. Camminavo per le strade della parrocchia e vedevo gente scalza e affamata, continuavo a battezzare bambini che, di lì a pochi giorni, morivano per malnutrizione e perché non potevano curarsi. La maggioranza della popolazione era indifesa ed erano in molti a finire in carcere, a essere malmenati o uccisi. Non era facile. Dopo due anni pensai di scappare, ma, ripensando ai secoli di miseria della gente e alle esigenze del Regno di Dio, decisi di rimanere e approfondire il lavoro pastorale».
‒ Come la parrocchia decise di affrontare questa situazione?
«Creammo 12 gruppi parrocchiali in base all’età, facevamo riunioni di evangelizzazione e Messe con i lavoratori delle piantagioni. Dal 1977, i contadini chiesero alla parrocchia di appoggiare le loro richieste di proprietà della terra di una cooperativa governativa: rivendicavano un accordo firmato 14 anni prima, ma mai applicato. Da allora, iniziò la persecuzione da parte dei latifondisti: ricevetti minacce continue e uomini armati interrompevano le celebrazioni. Mi accusavano di sovversione e di organizzare lo sciopero di 240 mila contadini al nord, in collegamento con i metalmeccanici di Lula a sud».
‒ Ti accusavano di immischiarti nella politica?
«Come può un sacerdote chiudere gli occhi davanti ai problemi dei suoi parrocchiani? La motivazione era evangelica, lo dissi ai padroni e a chi stava dalla loro parte. In Chiesa si ascolta l’annuncio del Regno di Dio e ci si chiama “fratelli e sorelle”: non si può essere santi davanti a Dio e ipocriti nei rapporti quotidiani. Chi andava contro il potere, doveva essere fatto tacere. Venivo minacciato perché nei villaggi dicevo la Messa con i contadini, alla sera, nel buio totale perché non avevano la corrente elettrica; i latifondisti mi mandarono a dire che avrei potuto celebrare solo nelle cappelle private delle loro ville».
‒ Nel 1980, la goccia che fece traboccare il vaso fu il tuo rifiuto di celebrare due Messe, nella piazza principale del paese, in occasione del giorno dell´Indipendenza. Cosa successe?
«Ricevetti dal sindaco, amico dei latifondisti, la comunicazione dell’imposizione di due Messe per il 7 settembre. Il titolo delle celebrazioni di quell’anno era “L’indipendenza siamo tutti noi”. Con la parrocchia, scrivemmo una lettera per dire che il popolo non era indipendente, ma ridotto alla miseria. Celebrai tre messe (era domenica), ma non le due programmate dal sindaco. Non me la perdonarono: scattò l’interrogatorio della polizia, in cui mi presero 80 volte le impronte digitali in due ore, il processo federale, l’arrivo di pistoleri mandati dai latifondisti durante una Messa in mia solidarietà, gli arresti domiciliari e, infine, l’espulsione firmata dal presidente, appena tornato da un incontro con Pinochet, e annunciata con grande risalto dalla tv nazionale. Poco dopo, fui informato che i latifondisti avevano deciso, in caso di mancata espulsione, di uccidermi, come pochi mesi prima avevano fatto con Romero in Salvador».
‒ La Chiesa brasiliana ti fu vicina?
«Moltissimo, i vescovi protestarono, organizzarono Messe di solidarietà e, in occasione del processo da parte della Corte Suprema il 30 ottobre, intervennero in dodici in mia difesa. Il giorno della partenza, migliaia di persone, insieme ad altri vescovi, invasero l’aeroporto per mostrare solidarietà. Partii guardato a vista da 30 soldati, ma tra due ali di folla che cantava: "Il Brasile sta con te". Piansi quando andai via, ma da allora ho perdonato tutti quelli che sono stati coinvolti nella mia espulsione. La Conferenza episcopale brasiliana fece leggere in tutte le Chiese un testo molto duro contro la dittatura. “Il 30 ottobre”, scriveva, “rimarrà nella storia della Chiesa in Brasile come un giorno di beatitudine e di tristezza. Di beatitudine perché 'felici sono coloro che soffrono persecuzione per amore alla giustizia' (Mt. 5,10), e questo è il caso di padre Vito Miracapillo. Egli si è attenuto ad annunciare il Vangelo in maniera integrale, incarnato nella realtà della sua comunità attualmente in condizioni di vita infraumana. Non accettiamo di annunciare il Vangelo in altra maniera, la Chiesa non si impaurisce per questa espulsione”».
‒ Dopo sei tornato in un quartiere di periferia di Andria e ora a Canosa, ma dal 1993 puoi visitare il Brasile.
«Sì, dal 1980 al 2003 sono stato parroco a San Riccardo ad Andria e dal 2003 nella parrocchia di Gesù Liberatore, a Canosa. Grazie alla fine della dittatura militare (1985), il decreto di espulsione mi fu revocato nel 1993. Da allora, torno nel Pernambuco ogni anno: della prima volta ricordo con particolare gioia l’abbraccio di dom Hélder Camara e di dom Acacio Rodrigues Alves, che era stato mio vescovo durante tutta la permanenza. Nel 2011, poi, la presidente brasiliana Dilma Rousseff mi ha concesso l’autorizzazione permanente per tornare a vivere nel Paese e si è scusata per le azioni del Governo di allora. Tutto ciò è avvenuto nello stesso giorno della costituzione della Commissione per la Verità, per far luce sui crimini di quel periodo. In tanti aspettano di scoprire i lati oscuri, o di avere notizia dei desaparecidos. Solo l’anno scorso un amico avvocato, che mi diede solidarietà durante il processo, ha saputo che il fratello, di cui aveva perso le tracce dal 1974, era stato torturato e fatto sparire in un forno crematorio nella città di Rio de Janeiro. Così agiva la dittatura».