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La strage dei braccianti e l'ombra nera del caporalato

07/08/2018  Sedici braccianti morti immigrati in poco più di 48 ore sulle strade del Foggiano. La procura di Foggia: «Indaghiamo per capire se erano sfruttati». I dati dell’Osservatorio “Placido Rizzotto”: meno di tre euro all’ora per 12 ore di lavoro sotto il sole, business da 4,8 miliardi di euro. Ma ci sono anche le buone pratiche e le aziende virtuose

Ci sono voluti sedici braccianti immigrati morti in poco più di 48 ore sulle strade del Foggiano per riaprire il dibattito sulla piaga del caporalato nel nostro Paese. Abbiamo una legge da due anni (gli unici insieme al regno Unito), il vicepremier Luigi Di Maio ha annunciato di voler più ispettori del lavoro a vigilare mentre il procuratore della Repubblica di Foggia, Ludovico Vaccaro, ha annunciato l’avvio di un’indagine ad hoc, parallela a quella sulla dinamica dei due incidenti stradali di sabato e lunedì scorsi, «per individuare», ha detto, «le aziende in cui hanno lavorato gli immigrati e verificare anche le eventuali condizioni disumane in cui lavoravano. Si stanno verificando gli orari», ha aggiunto Vaccaro, «per vedere da che ora a che ora hanno lavorato, capire se c'è stato sfruttamento ed intermediazione».

Si calcola che in Puglia lavorino circa 180 mila braccianti stagionali, di cui 40 mila stranieri. Secondo le stime dei sindacati, altri 50 mila sono irregolari, pagati in nero e senza alcun tipo di tutela. Molti vivono nei campi, all’aria aperta e in condizioni di fortuna. Bubacarr Djallo, 24 anni a settembre, originario della Sierra Leone, era uno dei braccianti che si trovavano chiusi nel cassone posteriore del furgone, senza nemmeno un finestrino per vedere fuori o avere un po’ d’aria. Djallo, un irregolare, ha raccontato che la sua paga è stata di 23 euro per 8 ore di lavoro, meno di tre euro l’ora (con un contratto regolare, la sua paga dovrebbe raddoppiare). Mentre il trasporto sul furgone per arrivare dai campi ai posti dove vivono costa cinque euro a ognuno dei passeggeri.

Secondo il Rapporto Agromafie e Caporalato condotto per il quarto anno consecutivo dall'Osservatorio “Placido Rizzotto Flai Cgil” e intitolato al sindacalista che fu rapito e ucciso da Cosa nostra nel 1948, sfiorano quota 430mila i lavoratori agricoli esposti, in Italia, al rischio di un ingaggio irregolare e sotto caporale; e di questi più di 132mila vivono in condizione di grave vulnerabilità sociale e di forte sofferenza occupazionale. Solo in agricoltura il tasso di irregolarità dei rapporti di lavoro è pari al 39%. Un business, quello del lavoro irregolare e del caporalato agricolo, pari a 4,8 miliardi di euro. E il contraccolpo lo sentono anche le casse dello stato, visto che l'altra faccia del lavoro nero un'evasione contributiva stimata in 1,8 miliardi di euro.

A partire dal 2015 l'Osservatorio conduce un'approfondita analisi sul fenomeno del lavoro irregolare nelle campagne italiane sulla base di dati Istat, Crea, della Corte dei Conti, della Commissione Parlamentare Antimafia e anche sulla scorta di interviste. Lo studio presentato quest'anno rileva che più di 300.000 lavoratori agricoli, ovvero quasi il 30% del totale, lavorano meno di 50 giornate l'anno. E proprio in questo bacino è presente molto lavoro irregolare. Su circa un milione di lavoratori agricoli, i migranti si confermano una risorsa fondamentale. Secondo i dati Inps nel 2017 sono stati registrati con contratto regolare in 286.940, circa il 28% del totale, di cui 151.706 comunitari (53%) e 135.234 provenienti da paesi non Ue (47%). Secondo il Crea i lavoratori stranieri in agricoltura, tra regolari e irregolari, sarebbero 405.000, di cui il 16,5% ha un rapporto di lavoro informale (67.000 unità) e il 38,7% ha una retribuzione non sindacale (157.000 unità). Si tratta di lavoratori sottoposti a grave sfruttamento: nessuna tutela e nessun diritto garantito dai contratti e dalla legge; una paga media tra i 20 e i 30 euro al giorno; lavoro a cottimo per un compenso di 3/4 euro per un cassone da 375 chili; un salario inferiore di circa il 50% di quanto previsto dai contratto nazionale. Non solo. I lavoratori sotto caporale devono pagare a questi ultimi il trasporto a seconda della distanza (mediamente 5 euro); beni di prima necessità (mediamente 1,5 euro l'acqua, 3 euro il panino, etc.).

L'orario medio va da 8 a 12 ore di lavoro al giorno. Le donne sotto caporale percepiscono un salario inferiore del 20% rispetto ai loro colleghi. Nei casi più gravi di sfruttamento analizzati, alcuni lavoratori migranti percepivano un salario di 1 euro l'ora. Per quanto riguarda le aziende, il Rapporto, dalle informazioni acquisite, quantifica in 30.000 il numero di aziende che ricorrono all'intermediazione tramite caporale, circa il 25% del totale delle aziende del territorio nazionale che impiegano manodopera dipendente.

Anche abusi sessuali e fisici sui lavoratori sfruttati

Gli stessi numeri (430mila lavoratori agricoli irregolari e 100mila a rischio sfruttamento) sono contenuti nel Rapporto “Maturi per il cambiamento”, diffuso a giugno da Oxfam che ha anche analizzato le politiche di alcune tra le maggiori catene di supermercati in Europa e negli Stati Uniti, che stentano ad adottare pratiche commerciali più eque nei confronti di piccoli produttori e lavoratori agricoli lungo le loro filiere di approvvigionamento dove è emerso che i supermercati trattengono una quota crescente del prezzo pagato dai consumatori – in alcuni casi fino al 50%– mentre quella destinata a lavoratori e produttori è spesso pari a meno del 5%. Al contrario, i piccoli coltivatori e i lavoratori, nella stragrande maggioranza dei casi vivono in povertà.

Dallo studio “Sfruttati” curato da Oxfam Italia e Terra!Onlus è emerso, infine, che tra i più gravi abusi sui braccianti vi sono: stipendi di gran lunga inferiori al minimo sindacale indicato dai contratti collettivi di lavoro; la sistematica violazione della normativa in materia di orari di lavoro; condizioni di lavoro che mettono a repentaglio la salute; condizioni abitative e qualità della vita estremamente precarie, con lavoratori costretti a vivere in tuguri fatiscenti, tendopoli o container; un controllo pressoché totale delle vite dei lavoratori da parte dei datori di lavoro; abusi sessuali, fisici o verbali, e violenza nei confronti delle donne.

La ricerca "Be aware" sulle buone pratiche

  

L’altra faccia (positiva) della medaglia sono le buone pratiche analizzate e raccontate nella ricerca “Be aware” (“Essere consapevoli”) realizzata dal Milan Center for Food Law and Policy, presieduto da Livia Pomodoro (ne parliamo in un'ampia inchiesta sul numero 32 di Famiglia Cristiana in edicola da giovedì 9 agosto). La prospettiva è diversa: non denunciare ma analizzare e raccontare gli esempi virtuosi: dalla legislazione (Italia e Regno Unito sono gli unici due paesi europei ad avere una legge ad hoc contro il caporalato) alle storie di aziende come le italiane Francescon, Campoverde e Fin Agricola, fino alle campagne come il Progetto Presidio di Caritas italiana e “Buoni e giusti” di Coop Italia che ha coinvolto tutti gli 832 fornitori di ortofrutta del gigante della grande distribuzione: «Parliamo di qualcosa come 70mila aziende agricole coinvolte», ha spiegato Mauro Bruzzone, responsabile politiche sociali di Associazione Nazionale delle Cooperative di Consumatori-Coop, «prevede di estendere tutto il sistema di controlli, di ispezioni e di verifiche a tutte le forniture di prodotti ortofrutticoli».

Marco Pedol è il capo progetto della ricerca: «Siamo partiti dall’esigenza del consumatore finale di conoscere se il prodotto acquistato è “onesto” oppure arriva da pratiche di sfruttamento dei lavoratori. Quanto più il consumatore diventa sensibile, tanto più è più facile chiedere a ai produttori di lavorare in modo corretto». Per stare all’Italia, nel settore agricolo le irregolarità in termini di assunzione, retribuzione, orari di lavoro hanno avuto un’incidenza del 50% nel 2017, stando alle stime dell’Ispettorato nazionale del lavoro. «Abbiamo individuato 35 buone pratiche», spiega Pedol, «cioè esempi che possono essere replicabili anche dagli altri e che, di fatto, cambiano il volto di un settore». L’obiettivo finale di questo monitoraggio è quello di creare nell’ambito del Milan Center for Food Law and Policy un osservatorio permanente delle buone pratiche. «A livello europeo», conclude Pedol, «l’Italia non è il paese peggiore, ci sono enti che forniscono i dati su economia sommersa e lavoro nero in agricoltura, da due anni c’è una legge ad hoc e ci sono tante iniziative positive».

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