di Regina Catrambone, direttrice Moas Migrant Offshore Aid Station
Il drammatico naufragio avvenuto la scorsa domenica a 150 metri dalla costa calabrese è costato la vita a 69 persone tra uomini e donne, di cui 15 bambini, in fuga dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Pakistan, dall’Iran e dall’Iraq. A viaggiare su un’imbarcazione di fortuna con condizioni meteo proibitive erano persone che tentavano di salvarsi disperatamente dalla distruzione del terremoto, dalla guerra, dalle violenze e dalle torture subite negli Stati di provenienza. Persone che avevano diritto allo status di rifugiato, alle quali gli Stati dell’UE riconoscono il diritto a essere accolte per le drammatiche situazioni che affliggono le loro terre.
La morte di queste persone non può essere considerata un incidente, ma una tragedia che poteva essere evitata. Un dramma causato dalla negligenza e dalla miopia, responsabilità della nostra incapacità e della mancata volontà di creare un sistema europeo condiviso e coordinato per la gestione migratoria e per la ricerca e il soccorso in mare. La giustizia accerterà quali sono state le responsabilità del mancato soccorso, che avrebbe salvato vite umane lasciate per ore nel mare in tempesta. Circa 24 ore prima del naufragio, viene infatti lanciato un may-day, un allarme senza coordinate, che segnala un’imbarcazione in difficoltà nel mare Ionio.
Nelle tarde ore di sabato 25 Febbraio, un aereo di Frontex avvista il barcone e segnala alla base italiana la probabile presenza di numerose persone a bordo. L’Italia invia due vedette della Guardia di Finanza che non riescono a raggiungere l’imbarcazione a causa delle condizioni avverse del mare. La decisione, dunque, è quella di avviare un approccio repressivo, non comprendendo la gravità della situazione. Se, invece, in considerazione delle condizioni del mare, fosse stata avviata un’azione di ricerca e soccorso, sarebbe stata la Guardia Costiera ad entrare in azione con le motovedette inaffondabili che avrebbero potuto salvare le vite in mare. Quando è stato finalmente attivato l’evento SAR, invece, era già troppo tardi, il peggio era avvenuto. Non è ancora chiaro, tra l’altro, come mai non sia stato seguito il regolamento sui soccorsi in mare redatto dalla Guardia Costiera ed entrato in vigore nel 2021 secondo il quale le operazioni di salvataggio dovrebbero scattare “quando si presume che sussista una reale situazione di pericolo per le persone…nel senso che una notizia con un minimo di attendibilità deve essere considerata veritiera a tutti gli effetti”. Tutto questo in un momento nel quale da anni, non esiste alcuna missione istituzionale di ricerca e soccorso, a eccezione della missione Themis, avviata da Frontex nel 2018.
Nonostante disponga di 10 navi, 2 aerei e 2 elicotteri e sia nata con l’obiettivo di aumentare il pattugliamento marino, la lotta alle attività criminali transfrontaliere, sviluppare polizia e intelligence e garantire il soccorso dei migranti in mare, in realtà è inefficace rispetto all’ultimo punto. La missione, infatti, da statuto, non può avviare operazioni di ricerca e soccorso in autonomia senza il coordinamento di un MRCC- Maritime Rescue Coordination Center nazionale.
Pertanto, può monitorare e segnalare la presenza di imbarcazioni in mare e coadiuvare lo Stato nei soccorsi ma non può avere l’iniziativa del soccorso, che dipende sempre dagli Stati. Non sarebbe forse opportuno ampliare la missione Themis o creare una nuova missione che abbia la possibilità di avviare le attività di ricerca e soccorso in rappresentanza di tutti gli Stati europei affinché sia possibile intervenire con maggiore celerità e salvare vite umane? Le persone migranti, invece, continuano a essere lasciate in balia del caso, delle onde, abbandonati al loro triste destino nel silenzio assoluto. Ogni anno si consumano terribili naufragi di cui spesso nessuno ne conosce l’esistenza. Nel frattempo, i singoli Stati europei si chiudono nella protezione dei loro confini.
La regolamentazione e l’armonizzazione della gestione dei flussi migratori a livello europeo necessita dall’adozione di vie sicure e legali di ingresso, che permettano a coloro i quali intendono presentare la domanda di asilo di farlo viaggiando in maniera regolare senza mettere a rischio la propria vita.
L’apertura di canali sicuri svuoterebbe i barconi della morte, salverebbe tante persone e bloccherebbe l’approccio emergenziale garantendo una maggiore sicurezza agli Stati di accoglienza.
La necessità di trovare degli accordi tra gli Stati del Mediterraneo che possano garantire un porto sicuro, sia tra quelli che fanno parte dell’Unione Europa che quelli della sponda meridionale, potrebbe essere una valida soluzione per evitare che ulteriori vite possano essere perse in mare e, al tempo stesso, avviare una gestione più sicura e più rapida delle richieste di asilo.