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mercoledì 14 maggio 2025
 
Il caso
 

La Superlega sgonfierà il nostro calcio? Proviamo a capirci qualcosa

19/04/2021  Benché sia arrivata stanotte come un fulmine a ciel sereno e con un doppio gioco non proprio elegantissimo, la Superlega ha un precedente nella pallacanestro. E non è l'Nba. Ecco com'è andata a finire

Ci siamo svegliati stamattina investiti da un fulmine a ciel sereno o quasi: 12 club, i più importanti del calcio europeo (tra loro Juventus, Inter e Milan per citare quelli di casa nostra) hanno annunciato lo scisma del pallone: la nascita della cosiddetta Superlega, un campionato professionistico, per paperoni dicono alcuni. Sembra la cosa più inedita del mondo, ma è già accaduta vent’anni fa sotto il nostro naso, solo che avendo la maggior parte degli sportivi da poltrona delle nostre parti il naso affondato nel solo pallone da calcio, pochi conoscono il precedente, avvenuto nella palla a spicchi, sotto canestro. Molti in queste ore citano l’Nba, la lega cestitstica professionistica del Nord America, ma il paragone è inesatto: dal momento che quella è una Lega unica, di un solo Paese, che adotta meccanismi compensativi di equilibrio competitivo-finanziario come la draft lottery (il meccanismo che consente alle squadre peggio classificate di avere più probabilità di scegliere per prime i nuovi giocatori in ingresso Nba) o come il salary cap (tetto salariale).

Il termine di paragone più affine alla nuova Lega calcistica europea è infatti l’Eurolega, il campionato professionistico europeo di Pallacanestro semichiuso, fondato con successivi aggiustamenti a partire dal 2000, con un modello, simile a quello spuntato la scorsa notte dal cilindro del pallone, che ha alcune squadre qualificate di diritto (con criteri che includono blasone, bacino d'utenza, impianti...) per un certo numero di anni, ma con la clausola di finire fuori se falliscono o se i risultati diventano troppo scarsi, e altre che si qualificano grazie ai risultati. La logica è quella di creare un campionato professionistico in cui si possano fare progetti a scadenza più lunga di una stagione oltreché quella di far sì che siano i club a gestirselo. Tutto questo genera conflitto e preoccupazione almeno nell’immediato: è accaduto nella pallacanestro, accade nel calcio.

La questione è in prevalenza economica: si genera il timore che i più ricchi si portino via il pallone sottraendo così una significativa parte di interesse ai campionati e alle Coppe gestiti da Leghe nazionali e federazioni internazionali. È un rischio che si corre. L’altro problema che si pone è di principio, o almeno così lo pongono le componenti che temono di vedere la coperta tirata da un’altra parte: ci si domanda se questo iperprofessionismo non generi un maggiore squilibrio e un’ulteriore sperequazione nella cesura già presente tra società grandi e piccole, tra ricche e meno ricche. Anche questo è un rischio, dal quale la gestione attuale non va esente, nel senso che il fair play finanziario dell’Uefa non garantisce granché, già oggi molte società stanno in piedi spendendo fortune sul filo del rasoio, già oggi i campionati nazionali sono appannaggio di società che hanno panchine lunghe e un’outsider che arrivi in Champions League sa che ha pochissime probabilità di provare a vincerla, a meno di non azzardare una campagna acquisti/debiti che la porti a svenarsi e a rischiare il fallimento in un paio di stagioni. Né si può dire che aiuti le piccole o l’equilibrio di una Champions League l’intenzione della Uefa di portarla a 36 squadre.

Non dobbiamo dimenticare, infatti, che di professionismo stiamo parlando, non di diritto allo sport per tutti che è una cosa decisiva per la salute fisica e mentale di un popolo ma che è tutt’altra cosa. Un conto è permettere a tutti i bambini di giocare e di stare in salute, un conto è ragionare di come costruire campionati tra professionisti, che facciano introiti, che si sostentino, che reggano nello spettacolo e nella qualità. Nella disputa tra federazione e leghe professionistiche siamo definitivamente nel secondo ambito. Ciò non toglie che anche questo sport per conservare il suo valore intrinseco, anche di spettacolo, abbia doveri di lealtà e trasparenza nella competizione, nell’organizzazione e a livello finanziario.

La storia della pallacanestro, comunque, ci sta mostrando che tra Eurolega e Campionati non si è creata la frattura che il calcio sta temendo: grandi squadre tutte votate alla Superlega che tolgono interesse ai campionati. Le squadre che in questi giorni si disputano l’inizio dei play off in Eurolega infatti sono le stesse che si contenderanno la prima piazza dei dei loro campionati: vale per Olimpia Milano in Italia, per Real e Barcellona in Spagna, per Cska in Russia, per Efes in Turchia... Ma il fatto che stiano disputando anche l’Eurolega, contemporaneamente, le porta alla fatica doppia e dunque a tenere a lungo aperte in patria classifiche che diversamente avrebbero magari ammazzato a metà stagione.

Se guardiamo al campionato italiano, negli ultimi anni sono state davvero tante le squadre che sono andate a giocarsi i play off del Campionato di pallacanestro e diverse le squadre arrivate a vincerlo. Non solo accanto a Milano, presente di diritto, e da domani impegnata nei play off, la Virtus Bologna è andata vicinissima a conquistare l’ingresso in Eurolega sul campo. E Brindisi sta contendendo a Milano il primo posto in regular season in campionato, con due successi negli scontri diretti. Ma non certo perché Milano intenda mollare.

Si pone, però, in generale un problema di meritocrazia, se la Lega professionistica è troppo chiusa e se non c'è spazio per chi meriterebbe di entrare, per i risultati raggiunti. E forse anche di tenuta della qualità della Lega, se le squadre che ci sono di diritto non tengono alla lunga il livello. 

Sarà sempre vero che il doppio campionato (che per la pallacanestro dove l’Eurolega è a 18 squadre è doppio in senso proprio) comporta una fatica accessibile solo a chi può economicamente, fisicamente, tecnicamente, permetterselo, ma anche una Champions a 36 squadre significa più partite e anche adesso, che è a 32, solo quelli che hanno spessore di panchina e campioni blasonati se la giocano davvero. La Champions a 36 squadre appena approvata è la risposta della Uefa nella disputa, anche questo doppio champions/superlega l’abbiamo già visto nella pallacanestro, come abbiamo già visto il braccio di ferro, le carte bollate e il guardarsi in cagnesco, ma abbiamo visto anche che un equilibrio o quantomeno una tregua armata alla fine è parsa alle parti più conveniente per lo spettacolo intero della pallacanestro rispetto a una guerra senza quartiere che alla fine avrebbero perso le parti più deboli. Anche per questo non è detto che alla Premier League convenga cacciare, come minaccia di fare, per ripicca le sue squadre migliori. Si autocondannerebbe a un “premierato” di serie B.

Una componente che inevitabilmente, invece, soffrirà saranno le Nazionali, perché quando si gioca molto e le ambizioni sono elevate i conflitti di interesse sono maggiori e l’azzurro e i colori nazionali in generale potrebbero uscirne penalizzati. Se poi la decisione di Uefa, Fifa e Federazioni, fosse davvero, come s’è ventilato, cacciare dalle Nazionali i superleghisti, vorrebbe dire farsi un’autorete non da poco. È un aspetto da valutare perché perderemmo una parte importante della poesia. Anche se l’esperienza del basket insegna che quel problema si è posto di più con l’Nba, perché sta dall’altra parte del mondo e perché ha calendari tutti suoi.

Detto tutto questo, un problema etico sul tavolo rimane: è quello di un presidente, Andrea Agnelli, che ha trattato fino a ieri su due tavoli. Se l’ambizione alla Superlega si può capire, condividendola o meno, il doppio gioco non è il massimo dell’eleganza.

Una considerazione, a parte, invece, forse merita il fatto che negli ultimi anni molti giovani spettatori italiani sono migrati dal calcio europeo alla pallacanestro Nba ed è probabile che questo stia avvenendo per il modello economico/sportivo che quella Lega rappresenta, avendo capito che la cosa su cui conviene investire è lo spettacolo nel senso di sport che tiene avvinta l’attenzione, di sport in cui il profitto è importante perché rende ed evita alle franchigie di fallire, ma anche di sport in cui l’imprevedibilità è l’essenza, perché se vincono sempre gli stessi e se si sa sempre come finisce alla fine non è divertente (e rende di meno). È quello che in America chiamano competitive balance, che non vuol dire stare tutti alla pari in un magma indistinto, ma creare il tanto di equilibrio che serve a un campionato per vivere e dare spettacolo fino in fondo, senza essere telefonato, lasciando aperta la speranza che un giorno gli ultimi saranno i primi. Anche se stiamo sempre parlando di superprofessionisti.

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