L’episodio verificatosi nel liceo di Verona mette in evidenza i limiti di un utilizzo prolungato della Dad trasformata da intervento di emergenza a modalità ordinaria di erogazione didattica da oltre un anno, soprattutto per gli studenti della Scuola secondaria di secondo grado. La variabile tempo, in questo caso, gioca un ruolo determinante. Se il ricorso alla Dad come intervento di breve periodo appariva giustificabile anche in assenza di una riflessione sulle sue modalità di attuazione, più problematico, invece, si è rivelato l’aver proseguito così a lungo con la didattica a distanza trascurando di interrogarsi sui cambiamenti che sarebbe stato necessario introdurre per “ampliare” il modo di “fare scuola”.
Eppure, diversi sono gli studi e le ricerche sulla formazione a distanza che, ormai da decenni, evidenziano quanto sia inopportuno trasferire in remoto i comportamenti e la didattica della scuola in presenza e come tale scelta generi disagi e frustrazioni. A dire il vero, neuropsichiatri infantili e psicologi già da tempo hanno lanciato l’allarme sul repentino aumento delle manifestazioni di disagio da parte di ragazzi e adolescenti, così come parecchi genitori hanno provato a condividere la loro preoccupazione di fronte alla crescente demotivazione dei figli nei confronti della scuola, la loro scarsa attenzione alla cura del proprio corpo e la perdita dei ritmi che scandivano la quotidianità.
Ne son dovuti passare di mesi perché si iniziasse a riflettere sull’esperienza emarginante vissuta da centinaia di migliaia di adolescenti “condannati” a seguire tante ore al giorno di lezioni on line, soli davanti ad uno schermo e chiamati a esercitare una responsabilità personale riguardo all’assiduità della frequenza, all’attenzione alle lezioni e alla disponibilità nei confronti delle verifiche, decisamente superiori a quelle che ci si può aspettare da ragazzi della loro età. E forse non si è ancora pensato abbastanza alla frustrazione di migliaia di docenti a cui è stato chiesto di fare lezione, per ore e molto spesso, a delle icone anonime, mantenendo inalterate le attività di verifica e valutazione.
E allora quanto è accaduto a Verona, al di là della sua gravità specifica e della valutazione di contesto che dovranno essere approfondite, va anche letto come un segnale preoccupante di come la tensione nelle nostre scuole virtuali stia arrivando a un punto di rottura. Ma anche l’idea che tutto si possa risolvere con il semplice ritorno in classe (ammesso che ciò sia possibile a breve) appare francamente ingenua e ottimistica. Sarà necessario ri-abituare, soprattutto i più giovani, alla vita di classe e all’interazione diretta con i docenti; bisognerà aiutare i ragazzi a superare alcune delle abitudini e dei comportamenti acquisiti poco funzionali alla scuola in presenza; in alcuni casi, soprattutto nelle prime classi, si dovrà avviare un vero processo di (ri)socializzazione scolastica. Queste sfide diventeranno ancora più difficili se si dovessero sovrapporre alle verifiche di fine anno, considerate le inevitabili tensioni, anche con le famiglie, che potrebbero derivarne.
(Rosalinda Cassibba è professore ordinario di Psicologia dello sviluppo all'Università di Bari).