Mediterraneo, la contraddizione: secolarizzazione e domanda di spiritualità
«I Paesi del Mediterraneo», ha detto, «vivono una situazione religiosa molto differenziata. Ci sono i Paesi dell’Europa occidentale attraversati dalla secolarizzazione nei suoi esiti contemporanei. Ma la secolarizzazione tocca anche i Paesi dell’Est capaci di custodire la presenza cristiana persino durante gli anni bui della dittatura comunista e, in forme diverse, pure le terre d’Oriente e i Paesi del Nord Africa, apparentemente immuni, per cultura e tradizione, rispetto ad ogni separazione tra ciò che è di Dio e ciò che è degli uomini.
Frutto della secolarizzazione non è però propriamente l’indifferenza nei confronti della religione e non è neppure la totale eclissi del sacro; si tratta piuttosto di una metamorfosi del sacro, di una profonda trasformazione rilevabile anche nel modo di vivere la fede. Sempre più la ricerca spirituale e l’esperienza religiosa si costruiscono fuori del recinto delle istituzioni, disegnando comunità mobili in cui alla forza di coinvolgimento emotivo corrisponde spesso la labilità dei legami. È il credere senza appartenere fino in fondo, o sentendosi parte per il tempo di una emozione».
La secolarizzazione tuttavia non riesce a distruggere lo slancio più autentico e viscerale verso Dio. Al contrario, spiega la professoressa De Simone, assistiamo a un «recupero delle forme di devozione popolare a livello diffuso. Pellegrinaggi e culto dei santuari esercitano un’attrattiva crescente che vede insieme non solo persone di estrazione sociale e di livello culturale differente, ma talvolta anche persone di fedi religiose diverse. È come se il sacro, nella forma della devozione, non solo resistesse a ogni secolarizzazione tesa a neutralizzarne la forza di incidenza, ma negasse nelle sue forme più essenziali ogni barriera e distinzione identitaria. C’è una domanda di salvezza e c’è un’esperienza di Dio che la devozione popolare, nel suo carattere trasversale, restituisce e che sfugge ad ogni forma di razionalizzazione».
Mediterraneo, strumentalizzazione delle fede e fondamentalismi
Ma nel contesto del Mediterraneo, aggiunge la studiosa, c’è anche il rischio rappresentato dalla strumentalizzazione della fede e della paura popolare, un rischio che si concretizza nel «riemergere di preoccupanti istanze teocratiche. Non solo in quei Paesi del Medio Oriente o dell’Africa che vivono una crescente islamizzazione dello Stato e il potere devastante di organizzazioni terroristiche, o in alcuni Paesi dell’est Europa, ma pure nei Paesi occidentali che sperimentano un tempo di disorientamento a partire dalla crisi del sistema economico e delle istituzioni democratiche e che rispondono ai flussi migratori irrigidendo i confini, chiudendo porti e valichi e negando ogni possibilità di accoglienza che comporti un reale confronto e la messa in movimento del sistema sociale. Quando tutto traballa “ci si aggrappa alla corda di Dio” per affermare disperatamente la propria identità, e anche in terre dove la convivenza pacifica tra etnie e tradizioni diverse era quotidianità, si invoca, in maniera implicita o esplicita, una «pulizia etnica» ammantata di sacralità e di difesa delle proprie tradizioni. E un patrimonio di umanità si frantuma, proprio come i templi, gli edifici, le opere d’arte fatte saltare in aria e come le case distrutte in alcuni luoghi. Il fondamentalismo ovunque si dia e qualunque sia la forma in cui prende corpo, anche quando si fa strada nella vita della Chiesa, è sempre una sconfitta della fede e una negazione della capacità umanizzante dell’esperienza di Dio».
Conseguenza di questa forma malata e distorta della religione sono gli attentati alla libertà di credo, che, ha sottolineato la De Simone, si traduce in persecuzioni e discriminazioni e sta colpendo in «crescita esponenziale» i cristiani «nell’indifferenza generale», talvolta sconfinando nel «martirio di molti, cristiani e non solo, uccisi unicamente a motivo della loro fede».
Croce e Corano. Domenica primo agosto 2016: imam a Messa in diverse chiesa italiane dopo l'assassinio di padre Jacques Hamel, l'anziano sacerdote sgozzato mentre celebrava, nella chiesetta di Saint-Étienne-du-Rouvray, in Francia. Foto: Ansa.
Il Vangelo della prossimità di Dio contro le fratture del Mediterraneo e lo "scontro di civiltà"
Giuseppina De Simone non ha dubbi su quale autentica fede consegnare ai giovani per abbattere paure e barriere su cui si fondano strumentalizzazioni e soprusi: «È il Vangelo della inaudita prossimità di Dio e della liberazione in radice da ogni nostra paura ciò che dobbiamo consegnare alle giovani generazioni. Non un Dio lontano, non un sistema di idee inattaccabile e coerente, ma un Dio che ama l’uomo di un amore infinito, che è in se stesso amore, pienezza di comunione; un Dio che non si è fermato dinanzi al nostro peccato ma ha preso su di sé le nostre fragilità liberandoci per sempre dal male che schiaccia le nostre vite; un Dio che si è lasciato incontrare facendosi carne ed evento e che continua a farsi incontro sulle vie della storia».
Forte anche il richiamo della De Simone alla necessità della “chiesa in uscita” cara a papa Francesco e a quella che La Pira chiamava «storiografia del profondo», ossia la costante dedizione al discernimento e all’ascolto: «Valgono per tutte le nostre comunità ecclesiali le indicazioni che il Papa ha dato a Napoli lo scorso giugno per un rinnovamento della teologia. Ci è chiesto di “ascoltare la storia e il vissuto dei popoli […] per poterne decifrare le vicende che collegano il passato all’oggi e per poterne cogliere le ferite insieme con le potenzialità”, di essere “etnografi spirituali”, di saper arrivare cioè “là dove si formano i paradigmi, i modi di sentire, i simboli, le rappresentazioni delle persone e dei popoli” per poter dialogare con tutti “in profondità», per avviare processi di riconciliazione e di pace, dando vita così a «nuove narrazioni”. Ma questo discernimento, che è fatto di ascolto, non può che essere fatto stando in mezzo alla gente - al popolo, come ama dire papa Francesco - impastati come comunità ecclesiale nella vita del popolo, sapendo partire dalla sua esperienza di fede accolta nelle sue carenze e nelle sue ricchezze».
Bisogna «rovesciare le Crociate», diceva la Pira guardando alla realtà del Mediterraneo, tra presente e passato, sottolineando il bisogno di rinunciare per sempre alla contrapposizione violenta di due mondi e di due culture, del sopravvento da dover tentare a ogni costo. Questa necessità, ha aggiunto la teologa, è sempre più viva: «Siamo chiamati ad essere “Chiesa dell’incontro”, a “disarmare i cuori” ad abbattere “i muri dell’odio e della discordia”, nella consapevolezza della universale fraternità umana e nel riconoscimento della grande libertà di Dio che agisce anche al di fuori del cristianesimo».
Il senso di comunità, quello dell’ospitalità, una certa diffusa e trasversale propensione popolare al sacro sono alcuni dei tratti ricorrenti nelle diverse aree del Mediterraneo che possono agevolare il dialogo e l’armonia tra religioni e culture diverse. La forza della Chiesa, là dove cattolici e cristiani sono minoranza, o addirittura minacciati e perseguitati, d’altra parte dice quale sia il vero cammino per trasmettere la fede agli adulti del domani. Occorre, ha continuato De Simone: «Una Chiesa che non si preoccupa di fare proselitismo, ma di testimoniare un Dio che “è gioia e perdono”, stimolando “tutte le persone che vengono da noi a essere cordiali, a saper perdonare”. Perché è questa la prima conversione: quella del cuore e dell’esistenza. Una Chiesa che vuole aiutare a “capire che la religione è amore, fraternità, rispetto della vita e dell’altro” e che non si stanca di dire “che essere fratelli è possibile”. Il luogo più proprio per la traditio fidei è una Chiesa che sa “osare la pace” e che ritrova “la responsabilità di uno sguardo profetico”».
La De Simone ha poi ricordato la «forza generatrice» di tanti martiri della fede contemporanei come monaci di Tibhirine, monsignor Pierre Claverie, don Andrea Santoro, Charles de Foucauld, i martiri albanesi e quelli della Chiesa copta, capaci di condividere «fino in fondo la vita e la sorte del popolo in mezzo al quale erano stati chiamati ad annunciare il Vangelo, che non hanno lasciato la terra dove il Signore li aveva condotti neppure di fronte al crescere della violenza, che hanno continuato a testimoniare l’amore e la stima per la loro gente», e ha sottolineato: «Lì dove le vite dei martiri sono state spezzate, la testimonianza del Vangelo non si è interrotta, ma continua a passare, come testimonianza di dialogo e di fraternità possibile, di mano in mano, unendo ancora vite e fedi diverse. Ed è per questo stesso motivo che il loro martirio ci rende attenti anche alla sorte dei tanti “martiri del Mediterraneo”, in fuga dalla miseria e dalla guerra, strappandoci al rischio dell’assuefazione e dell’indifferenza. “La testimonianza dei martiri cristiani incoraggia i fedeli di oggi, che ancora ne conservano la memoria, a non tacere la verità, a non temere di professarla, a non cedere al male per paura, ad allargare i propri orizzonti aprendosi alla relazione con fratelli di altre fedi» per consegnare un mondo migliore alle generazioni future”».
Essere Chiesa dell’incontro, «audace testimone di un Vangelo di fraternità e di dialogo», esige però «il coraggio della formazione», «la via dell’educazione è il più grande segno di speranza ma è anche un’urgenza». «Per disarmare i fanatismi e “disinnescare mine”», ha concluso la teologa, «occorre un impegno formativo serio che generi sensibilità relazionale e metta in movimento le energie spirituali. La formazione per rafforzare la convivenza democratica è fondamentale perché è la mancanza di conoscenza che genera la diffidenza e la sfiducia. Negare l’istruzione favorisce l’estremismo. Mentre invece studiare fianco a fianco con chi ha una fede diversa è una maniera positiva di costruire un avvenire riconciliato. Lo attestano l’esperienza delle scuole interetniche di Sarajevo, l’impegno formativo della Chiesa in Terra Santa, il lavoro educativo che nella semplicità viene portato avanti da parrocchie e ordini religiosi in tanti luoghi del Mediterraneo e che è per tutti senza distinzione alcuna. Le opere cattoliche in ambito sanitario, educativo o sociale sono un avamposto di incontro e provano che la fraternità non è un’utopia».
La Chiesa, dunque, dev’essere «la Chiesa del “tra” che unisce anche chi si vorrebbe destinato ad essere separato, che non si stanca di essere presenza orante di intercessione per tutti, che si fa carico delle sofferenze di tutti ma soprattutto di chi non ha voce. È la Chiesa che, cercata, sa farsi trovare al suo posto, che non smette di denunciare le ingiustizie, le violenze e gli egoismi. Una Chiesa che sta dalla parte degli ultimi e dei poveri. Una Chiesa che sa fare spazio giorno per giorno al regno di Dio che viene, con umiltà e speranza».
(In alto: la muraglia che circonda il borgo antico di Bari sarà illuminata per la visita di Papa Francesco con i colori della pace; foto Ansa)