Sta facendo molto discutere quanto ha scritto Eugenio Scalfari su La Repubblica del 9 ottobre, dove si attribuisce impropriamente, se non scorrettamente, a papa Francesco una frase virgolettata, che, alla luce del dogma di Calcedonia, risulterebbe eretica: “Una volta incarnato Gesù cessa di essere un Dio e diventa fino alla sua morte in croce un uomo”. La smentita della sala stampa vaticana e le precisazioni apparse su Avvenire, grazie alla penna di Riccardo Maccioni, dovrebbero porre fine a sterili polemiche e alla confusione che si sarebbe generata fra i credenti in Cristo Signore, che vedrebbero la loro fede minacciata dal loro Papa.
Cercando di comprendere quanto emerso, vorrei sottolineare il fatto che l’impressione del giornalista Scalfari di una esclusione della natura divina di Cristo da parte di colui che deve confermarci nella fede, può plausibilmente essere stata indotta dal fatto che, rivolgendosi a un non credente (o diversamente credente) Francesco abbia voluto sottolineare con determinazione l’umanità di Dio nel suo Figlio, senza ovviamente escluderne la divinità. E questo accade ogni volta che, di fronte a interlocutori diversi insistiamo su un aspetto o l’altro dei dogmi, rischiando di essere fraintesi e di essere tacciati di eresia. Si pensi a s. Agostino, che quando si scagliava contro i manichei veniva tacciato di pelagianesimo e quando combatteva i pelagiani veniva ritenuto manicheo.
L’affermazione problematica, secondo cui “Gesù cessa di essere Dio” dal momento in cui si incarna, va interpretata alla luce dell’inno della lettera ai Filippesi (2,6-11), cioé nel senso che, nel momento in cui si fa uomo, Cristo rinuncia ad alcune prerogative divine, in particolare l’impassibilità, in quanto in lui Dio soffre e muore, avendo condiviso la condizione umana in tutto, eccetto il peccato. Questo rende davvero il senso profondo dell’incarnazione, che altrimenti sarebbe una pura rappresentazione e la sua passione e morte non una realtà quale quella che raccontano gli scritti del Nuovo Testamento ed esprime la nostra professione di fede.
In un suo splendido testo del 1956, intitolato “L’umanità di Dio”, il grande teologo riformato Karl Barth, che col suo pensiero ha esercitato una forte influenza su tutta la teologia del Novecento, scriveva: “Proprio la divinità di Dio, ben compresa, include la sua umanità”.