È lunedì 3 gennaio; manca qualche minuto alla chiusura di una tabaccheria a due passi dalla stazione centrale di Napoli. Anthony Fontanarosa, appena 17 anni, vi entra con un complice con l’intenzione di portare via l’incasso. Nella tabaccheria c’è anche un poliziotto fuori servizio che interviene per sventare la rapina; ne nasce un conflitto a fuoco. Anthony, colpito dall’agente, morirà una settimana dopo. Stessa scena qualche giorno fa in un supermercato di Qualiano, provincia di Napoli. Questa volta la vittima 16enne è Domenico Volpicelli: voleva rapinare il supermercato con un complice, Raffaele Topo, 24 anni.
Entrambi hanno trovato la morte dopo l’intervento di una guardia giurata e di un carabiniere - padre e figlio - anch’essi fuori servizio. “Ragazzi con la pistola”, “baby rapinatori”, “guappi”: gli appellativi si sprecano. Quel che manca, forse, è il tempo e la voglia di fermarsi, riflettere e porsi qualche domanda. Noi abbiamo girato le nostre ad Amato Lamberti, docente di Sociologia della devianza e della criminalità presso l’Università Federico II di Napoli e fondatore dell’Osservatorio sulla Camorra.
Professor Lamberti, innanzitutto, questi ragazzi sono vittime o colpevoli?
Sono colpevoli senza consapevolezza perché hanno assorbito valori distorti; quindi sono soprattutto le vittime di un contesto dove non funziona niente. A partire dalla scuola che non sa trattenere né motivare “ragazzi difficili”: è facile fare lezione a studenti della borghesi rispetto a ragazzi della “periferia”. Questi due minorenni uccisi avevano lasciato la scuola, eppure non erano stati avviati ad alcune percorso formativo. È superfluo, col senno di poi, dire che frequentavano brutte compagnie: bisogna intervenire prima. Non è un caso se i minorenni che commettono rapine ed altri reati sono sempre di più: per fortuna non tutti finiscono ammazzati.
E la famiglia? Che colpe ha?
In quest’ultimo episodio di Qualiano mi ha particolarmente colpito una dichiarazione della madre del ragazzo ucciso che qualche giorno prima dell’accaduto aveva trovato 400 euro in tasca al figlio accontentandosi di una spiegazione palesemente falsa del figlio; in altri tempi la mamma avrebbe punito il ragazzo, poi avvisato il padre, avrebbe chiesto aiuto. In questo caso, invece, il messaggio che dà una mamma è una sorta di “autorizzazione” implicita. Nelle famiglie non c’è più il senso dell’autorità ed in generale c’è troppo buonismo nella società. È come se i ragazzi fossero abbandonati e le famiglie non si preoccupassero di quello che fanno i loro figli.
Scuola, famiglia... e le istituzioni?
Si investe poco sui giovani; se andiamo a vedere, ad esempio, la spesa del Comune di Napoli per il Welfare è pari a zero. Ma quel che è ancor più grave è l’approccio con cui s’investe nel sociale: non tanto per ottenere dei risultati quanto per creare posti di lavoro per questo o quell’operatore sociale impegnato nel terzo settore. E poi non esistono luoghi di aggregazione: purtroppo anche gli oratori sono sempre meno e sempre meno frequentati. È un fenomeno tutto napoletano? Succede anche a Milano, ma in misura molto minore perché nel Nord Italia è più normale che il ragazzo che non va a scuola trovi qualche piccolo impiego come operaio, meccanico... Poi magari i soldi li spende male: in discoteca, in divertimenti, ma almeno li guadagna lecitamente. Da noi c’è un corto circuito; dietro la scusa del lavoro che non c’è non ci si impegna neanche a cercarlo. Manca la cultura del lavoro perché da noi c’è l’abitudine a pensare che il “posto” ti debba arrivare dall’Ente pubblico. Più facile, allora, la scorciatoia della rapina, del furto, dello spaccio.
Sconcerta anche un rapporto con le armi quasi naturale...
A Napoli si usa dire “sono vestito” per intendere “sono armato”. In quest’espressione c’è il senso della subcultura: senza la pistola “sono nudo”. È come quando il padrino regalava la pistola in occasione della cresima come una sorta di investitura dell’essere diventato uomo. E poi non si può negare che c’è una sorta di attrazione per le armi, che è sempre più semplice procurarsi: si va oltre il bullismo e la violenza diventa armata.
Cosa si può fare di concreto e subito?
Bisogna responsabilizzare genitori e scuola. Se il ragazzo non va a scuola, c’è bisogno che qualcuno avverta subito la famiglia, che vada a vedere perché il ragazzo non è venuto. Insomma bisogna capire e far capire che le regole non sono negoziabili; ci vuole più impegno in una società dove non s’impegna più nessuno anche perché arrivano esempi, anche ai massimi livelli, di come sia più facile prendere delle scorciatoie, piuttosto che fare la gavetta. Abbiamo esagerato col permissivismo… Per educare bisogna dire tanti "no!".