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lunedì 23 giugno 2025
 
L'eroe della montagna
 

La tragica scomparsa dello scalatore estremo Carlo Alberto Cimenti

09/02/2021  Non lo avevano fatto desistere dalle sue imprese né la disavventura durante la discesa dal Gasherbrum VII in Himalaya raccontata nel libro Sdraiato sule cime del mondo, né il Covid: ma la sua amato montagna lo ha tradito, e Carlo Alberto Cimenti, 46 anni, per tutti Cala, è morto con un suo compagno di cordata Patrick Negro travolto da una valanga al Sestriere. Famiglia cristiana pochi mesi fa lo aveva intervistato

Una vita per l’avventura: dalle vette più alte del mondo ai fondali marini, sin da quando era piccolo. Con una specialità: arrivare sugli 8 mila per poi scendere sciando. Cala Cimenti (un nome insolito che gli è stato affibbiato come sintesi del suo vero nome Carlo Alberto) è sempre alla ricerca di nuove sfide, e dopo un passato come ristoratore ha scelto di fare della sua passione un lavoro. L’ultima delle sue imprese è stata la più eroica, sia per le vette raggiunte sia perché durante la discesa dal Gasherbrum VII ha assistito alla rovinosa caduta del suo compagno di spedizione e il suo sangue freddo è stato determinante per salvargli la vita. Ha così deciso di raccontare l’esperienza nel libro Sdraiato in cima al mondo (Sperling & Kupfer).  «Sono nato e cresciuto a Torino, e la prima volta che sono andato in montagna avevo 5 anni. I miei genitori hanno fatto viaggiare molto me e mio fratello: a 12 anni ho fatto la mia prima esperienza sul ghiacciaio del Monte Bianco, a 14 andavo con le bombole. Crescendo ho cominciato a organizzare delle spedizioni sempre più impegnative, trekking in Cile, nel Kilimangiaro, in Nepal. Poi è venuta l’ora del mio primo 8.000, a 26 anni: il Cho Oyu. All’inizio mi limitavo a scalare in modo tradizionale, poi vedendo che c’era chi scendeva con gli sci ho pensato di farlo anche io. Le scalate si sono susseguite una dopo l’altra, tanto da ricevere l’onorificenza di Snow leopard per aver scalato le cinque montagne sopra i settemila metri dell’ex Unione Sovietica». Le spedizioni sull’Himalaya richiedono un lungo tempo di preparazione per un totale di due mesi lontano da casa, dove lo aspetta la moglie Erika. Anche lei è un’appassionata di montagna, la sua specialità è l’arrampicata. Ma anche da casa riesce a sostenere Cala e ad aiutarlo concretamente come è successo in occasione dell’avventura rievocata dal libro. La spedizione dell’estate del 2019 comprendeva la conquista di due cime: Il Nanga Parbat e il Gasherbrum VII. La prima, nona vetta più alta del mondo, detta “la montagna assassina” per i tanti scalatori che vi hanno perso la vita, Cala Cimenti la affronta con due alpinisti russi. Malgrado qualche imprevisto come una valanga, riescono ad arrivare sulla cima, 8.126 metri. Rientrato alla base deve affrontare il Gasherbrum VII, fino a quel momento inviolato. Suo compagno di spedizione è Francesco Cassardo, un medico conosciuto l’anno prima in occasione della spedizione al Laila Peak. Tutto sembra filare liscio, Cala è più veloce e raggiunge per primo la cima. Il compagno sta ancora salendo quando lui inizia la discesa. Ma qualcosa va storto, Francesco inciampa e comincia a cadere. Cala assiste alla rovinosa caduta in cui vede il corpo dell’amico volteggiare in aria, perdere i vestiti e atterrare rovinosamente nella neve. Il primo pensiero è che sia morto. Si precipita nel luogo dell’incidente, l’amico ha il volto tumefatto, ma è vivo. Non ci vede e teme di avere un’emorragia interna. Se così fosse avrebbe bisogno di soccorso medico immediato. Cala si mette in contatto con la moglie Erika perché si mobiliti per trovare un elicottero. Nel frattempo, risale la montagna per raggiungere la tenda e prendere il necessario per passare la notte e raccoglie i vestiti di Francesco volati via. Quando torna lo veste, lo conforta, gli somministra delle medicine. L’elicottero però non partirà e dovranno passare due notti all’aperto dentro i sacchi a pelo. Saranno giorni concitati, tra speranze deluse e timidi miglioramenti di Francesco, che non ha emorragie interne. Quando ormai è certo che non arriverà nessun elicottero, poiché è difficile atterrare a 6.300 metri, parte una spedizione di tre alpinisti a piedi. «Sono stati dei grandi», dice Cala Cimenti, «a volte gli alpinisti sono egoisti e non vogliono rallentare i loro piani, ma senza di loro non ce l’avrei mai fatta. Per quello che ho potuto, credo di aver fatto le scelte giuste per tenerlo in vita, ma è stato fondamentale il supporto di mia moglie, che ha contattato anche dei medici specializzati in medicina di montagna che mi hanno detto che cosa dovevo fare». Francesco viene così trasportato a braccia più in basso, dove finalmente l’elicottero può atterrare. Gli ci vorranno parecchi mesi di cure per riprendersi da quella disavventura, che gli causa la perdita per congelamento di tutte le falangi delle mani, oltre alla rottura dei legamenti del ginocchio, congelamento a orecchie e naso e varie fratture. Per Cala Cimenti, però, le disavventure non erano finite. A marzo, mentre era a sciare vicino a Bergamo, ha contratto il coronavirus. «Avevo paura di finire in rianimazione, perché avevo un focolaio al polmone. Ma la saturazione era buona, e dopo essermi negativizzato mi sono ripreso bene. Purtroppo, sarà difficile che in agosto possa partire con una nuova spedizione in Asia, e dovrò ripiegare su qualche vetta europea. Non ho nessuna intenzione di mollare, e almeno  no a quando continuerò a divertirmi andrò avanti con le scalate».

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