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martedì 15 ottobre 2024
 
 

La Turchia, da San Paolo a oggi

05/06/2010  L'omicidio di monsignor Luigi Padovese riporta l'attenzione su un Paese ricco di storia e contraddizioni. Una testimonianza da Istanbul e l'analisi di un gesuita di Civiltà Cattolica.

Istanbul, 5 giugno 2010


     Il grido di Giobbe, il giusto sofferente, rimane in queste ore strozzato nelle nostre gole, poveri cristiani nella Terra santa di Turchia. Ma è un grido che si unisce a quello di chi, in ogni angolo del mondo, lamenta la morte di persone care. Vite violentemente strappate con una brutalità volgare, che infanga la loro sacralità e quasi irride il caro prezzo con il quale sono state riscattate nel sacrificio pasquale. Il “Corpus Domini” continua ad essere spezzato anche in terra di Turchia e l’amico vescovo Luigi, con questa sua dipartita, ci inchioda ancora di più alle nostre responsabilità, al dovere di una fedeltà, più che mai evangelica. A venti secoli dalla nascita del cristianesimo e del suo più grande apostolo, Paolo di Tarso, i cristiani di Turchia, un tempo l’Asia Minore; culla delle prime comunità cristiane e della strutturazione teologico-dogmatica del cristianesimo stesso, sono oggi la testimonianza vivente delle pesanti conseguenze non solo dell'espansione islamica, ma anche delle divisioni profonde di una comunità che il Cristo aveva sognato come l’espressione dell’unità e dell’amore trinitario stesso. Queste divisioni, accentuano un isolamento che svilisce, appunto, la forza di una presenza, significativa soprattutto se comunitaria. Lo stesso isolamento, favorisce anche chi esprime la sua ostilità ai testimoni del vangelo, non tanto con le armi e le minacce ma con la strategia della calunnia e dell’insinuazione volte a sporcarne la reputazione. 

     Dal 1915, con dissoluzione dell’Impero ottomano e il processo di formazione dei nuovi Stati nazionali si definisce anche un nuovo ordine geopolitico nel Medio Oriente. Le comunità cristiane orientali si trovano inserite in due dinamiche profondamente diverse. Se in Turchia il processo di costituzione dello Stato nazionale porta all'esclusione, ahimé non indolore, dei cristiani dal nuovo Stato, nell'area araba i cristiani sono invece tra i protagonisti, dal punto di vista sia culturale sia politico, della "nahda", il rinascimento o risveglio arabo.

     Tornando al caso turco, l'identificazione dell'idea di nazione con l'appartenenza confessionale, come suggeriva il sistema del millet (comunità, nazioni), porta a collegare l'identità turca esclusivamente al riferimento culturale musulmano (anche se da un punto di vista politico il nuovo Stato voluto da Atatürk si definisce laico), tanto più che le altre millet confessionali sono ormai state fagocitate nei giochi della politica espansionistica delle potenze europee, rispetto alla quale bisogna in qualche modo difendersi per sopravvivere. I cristiani, pedine tradite di un gioco terminato male, pagheranno un dazio carissimo a questa svolta storica. Il risultato è statisticamente impressionante: secoli di storia multi-confessionale spazzati in dieci anni, tra il 1914 e il 1924, data della proclamazione della Repubblica turca.

    Oggi, i cristiani in Turchia da un lato cercano una vera condizione di cittadinanza nazionale e dunque d’uguaglianza di diritti, dall'altro emigrano o progettano di farlo per cause molteplici sia d'ordine socio-politico sia economico. L'articolo 24 della Costituzione del 7 novembre 1982 che sancisce la libertà di coscienza, di credo e di convinzioni religiose, si pone su un piano individuale, ma non riguarda i diritti della collettività delle comunità religiose. Per questi ultimi, la base giuridica continua a essere il Trattato di Losanna del 1923, fino ad oggi, sempre applicato in modo restrittivo alle sole minoranze armeno-ortodossa, greco-ortodossa ed ebrea, minoranze sottoposte per questo al controllo della Presidenza degli affari religiosi (Diyanet). I cattolici latini sono stranieri senza il minimo statuto e personalità giuridici, ciò rende impossibile la proprietà degli immobili e la gestione delle strutture ecclesiastiche. In assenza di qualsiasi tipo di sovvenzione statale bisogna cercare di sopravvivere autonomamente e anche finanziariamente.

      Tuttavia, i sei anni donati alla chiesa di Turchia da monsignor Luigi Padovese, sono la prova più trasparente che oggi, più che mai, vale la sfida di una presenza in questa terra dalla storia cristiana così ricca. È una presenza che può finalmente essere evangelica, nel senso di nascosta ai più ma capace di condivisione. Dopo secoli di penetrazione cristiana nel segno della logica coloniale delle capitolazioni (trattati economici e politico-giuridici tra l’Impero ottomano e le potenze europee che inaugurano la politica d’interesse sempre più invadente utilizzando per i propri fini le comunità cristiane d’Oriente incitate a rivendicare una maggiore autonomia rispetto al potere centrale musulmano), abbiamo la grande chance di rompere definitivamente con questo passato, liberi di incontrare uomini e donne in questo crocevia di popoli e razze, senza dover fare scelte di campo, privilegiando un gruppo piuttosto che un altro, lontani dalle sfere d’influenza di ambasciate e consolati o lobby economiche.

    Questo non significa rinunciare alla battaglia dei diritti: invocati con pazienza ma anche con ferma determinazione, così come ha sempre testimoniato monsignor Luigi. L’ultimo concreto lascito delle sue battaglie era stata, proprio recentemente, il libero utilizzo della chiesa/museo di S. Paolo a Tarso che, ai tempi dell’Anno consacrato all’Apostolo delle genti, era stata solo provvisoriamente concessa.

     Vittoria che rimane, come lascito che incoraggia ed orienta il nostro vivere come minoranza in contesto islamico animati della sola fedeltà alla testimonianza debole di un Dio debole e solidale con l’uomo in un mondo che sembra aver imparato a fare a meno di Lui. È una provocazione al limite del blasfemo, ma si tratta di apprendere la fecondità della kenosi, della spogliazione... è proprio nella debolezza che noi diventiamo più coscienti del fatto che Dio chiama al di là delle frontiere della Chiesa e ci radichiamo ancora di più nella missione di accogliere e condividere il dono di Dio in Gesù Cristo con e per la gente dei nostri Paesi di accoglienza e di vita.

Padre Claudio Monge, responsabile del Centro di documentazione interreligiosa
dei domenicani di Istanbul, presidente dell’Unione religiosi di Turchia.

L’uccisione di monsignor Luigi Padovese è solo l’ultimo di una serie di  attacchi che negli ultimi anni, in Turchia, hanno avuto come obiettivo cristiani o comunque uomini di pace, finendo spesso in tragedia. Prima l’assassinio di don Andrea Santoro a Trabzon (l’antica Trebisonda) nel febbraio 2006; oltre un anno dopo, nell’aprile 2007, l’uccisione dei quattro fedeli protestanti che pubblicavano Bibbie in turco a Malatya, nel sud-est della Turchia; a seguire, nello stesso anno, a Smirne, l’agguato - per fortuna senza tragiche conseguenze - al frate francescano Andrea Franchini; infine a Istanbul, sempre nell’annus horribilis 2007, l’omicidio di Hrant Dink, giornalista di origini armene, fondatore della rivista Agos e paladino della verità storica del genocidio armeno in nome della libertà religiosa.

     Ma che Paese è in realtà la Turchia, gigantesco ponte gettato tra un Occidente cristiano (ma ormai secolarizzato) che vuole aprirle le porte, sia pur tra qualche riserva, e il Medio Oriente a maggioranza islamica, burrascoso e volubile, sempre sull’orlo di una crisi di nervi come mostra la recente crisi turco-israeliana, terra da sempre crocevia di fedi, culture e società tanto diverse? «Contrariamente a quanto ha affermato di recente l’ambasciatore Sergio Romano, che vede la Turchia interessarsi maggiormente al Medio Oriente, io credo onestamente che la Turchia stia invece guardando a Occidente», dice Padre Giovanni Sale, storico, autorevole firma della rivista Civiltà Cattolica. «La società turca è molto complessa e in questi decenni sta compiendo quel delicato passaggio, non senza trabocchetti e difficoltà, verso l’Europa e la cultura occidentale. Pur avendo diverse anime l’elemento prevalente, cioè la cultura, l’intellighenzia, il ceto medio e i giovani, spingono verso una modernizzazione della società secondo un modello occidentale, inclusa una maggiore libertà di religione. A questo si aggiunga che gli Stati Uniti, nonostante le resistenze di Francia e Germania, stanno spingendo l’alleato turco verso un sempre maggiore integrazione con l’Unione Europea».

Padre Sale, come si presentano oggi i rapporti tra Santa Sede e Turchia?
«Sono abbastanza ottimista sulla normalizzazione dei rapporti tra Santa Sede e governo turco, tra i quali esistono comunque da tempo regolari relazioni diplomatiche. Credo e auspico che, nel lungo periodo, questi si normalizzeranno sempre più verso una piena applicazione anche ai cattolici dei principi sanciti nel Trattato di Losanna del 1922, che tutela in maniera speciale le confessioni ebraica, armena e greco-ortodossa».
 
In che senso?
«Nel senso che nel Trattato di Losanna queste tre religioni sono ufficialmente parificate alla religione islamica: possono erigere chiese, possedere beni, le persone di culto sono ufficialmente riconosciute... Non così invece per altre confessioni, come i cattolici e i protestanti che, non essendo riconosciute, hanno meno diritti».

Può spiegare meglio?
«Per i cattolici e i protestanti la tutela della libertà religiosa è riconosciuta a livello della manifestazione personale, privata o pubblica, della loro fede ma non possono erigere ufficialmente chiese o seminari di formazione del clero; le diocesi e le parrocchie, poi, non beneficiano di alcun riconoscimento giuridico così come gli stessi ministri del culto non sono ufficialmente riconosciuti e sono, anzi, soggetti a un regime particolare e limitato di permesso di soggiorno. A questo si aggiunga che, non avendo enti giuridici, tutte le chiese, i conventi, le scuole e gli immobili adibiti a vario titolo al culto devono essere intestati a persone private o a fondazioni».

Che prospettive dunque?
«Dal punto di vista internazionale la Turchia ha più volte promesso di adeguare la sua legislazione ai trattati internazionali sulla libertà religiosa e di culto. Questa d’altronde è la condizione fondamentale per entrare nell’Unione europea ed è proprio questa condizione che ci fa ben sperare per il futuro».

Che conclusioni trarre dall’omicidio di monsignor Luigi Padovese?
« Il caso singolo dell’uccisione di monsignor Luigi Padovese, pur molto grave, deve essere considerato nella sua fattispecie singola. Le indagini in corso forniranno certamente maggiori spiegazioni sull’identità e le motivazioni dell’assassino. Non mi sembra comunque che questo episodio rappresenti il segno di un odio generalizzato verso i cristiani da parte della società turca. Certamente essa oggi, come ripeto, è divisa: la maggior parte dei turchi crede ancora nella libertà religiosa anche se non si può nascondere il fatto che, soprattutto in Anatolia, esiste un numero crescente di persone attratte nella sfera dei fondamentalisti che temono la deriva della società turca verso la sensibilità e la cultura occidentale».

                                                                                        Stefano Stimamiglio

L'hanno ucciso a Iskenderun, in Turchia. Monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico dell'Anatolia, è morto accoltellato in casa. Padovese, 63 anni, era stato nominato vicario apostolico e consacrato a Iskenderun nel 2004. Non si conoscono i motivi del gesto, ma si sa che l'assassino risulta essere il suo autista e uomo di fiducia, Murat Altun, 26 anni, che soffre di depressione ed è stato arrestato dopo poco dalla polizia turca.      

      Al di là delle circostanze sulle quali si sta indagando soprattutto per quel che riguarda il movente, monsignor Luigi Padovese ha finito i suoi giorni esattamente come don Andrea Santoro, ammazzato il 5 febbaio 2006 a Trebisonda. Ordinato sacerdote nel 1973, monsignor Padovese è stato professore titolare della cattedra di Patristica alla Pontificia Università dell'Antonianum e per sedici anni ha diretto l'Istituto di spiritualità del medesimo ateneo.  Ha anche tenuto corsi alla Pontificia Università Gregoriana e alla Pontificia Accademia Alfonsiana. Per 10 anni è stato poi visitatore del Collegio Orientale di Roma per la Congregazione delle Chiese Orientali.     

       Per indole e per preparazione specifica, insomma,  monsignor Padovese era un vescovo che apparteneva a quella nuova generazione della gerarchia cattolica consapevole di dover dare il proprio contributo al dialogo e alla reciproca comprensione, specialmente in un’area dove le tensioni geopolitiche si sommano a quelle religiose. In Turchia monsignor Padovese era considerato oltrechè un bravo vescovo anche un fine intellettuale. Era molto apprezzato negli ambienti più aperti della moderna intellighenzia turca, da tempo conscia che per evitare l’isolamento della Turchia non si possono soltanto stringere legami militari ed economici  con l’Occidente ma si deve pure partecipare, da pari, al dibattito culturale europeo.    
   
     E’ chiaro che un’Europa più allargata anche sulla frontiera del Mediterraneo sudorientale deve sapere intrecciare cultura e stimoli religiosi intorno alle grandi confessioni mediterranee: Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Monsignor Padovese era riuscito a spiegare ai più importanti circoli intettellettuali turchi l'urgenza, la bontà e l'efficacia di un fecondo lavoro culturale e religioso elaborato a più voci, attraverso il dialogo, la conoscenza, il rispetto reciproco. E nei “colloqui sulla Bibbia” che organizzava da anni a Efeso, aveva praticamente riproposto lo stile che fu proprio di San Paolo, convinto e propositivo, certo, ma mai impositivo e apodittico. Così facendo, però aveva scontentato gli ambienti conservatori, tanto quelli laici quanto quelli religiosi, in un Paese molto geloso della sua identità recente, che oscilla tra la fisionomia non confessionale e moderna voluta da Ataturk e, all'opposto, la mitologia quasi mistica di una Turchia esclusivamente islamica. La sua uccisione, avvenuta  il giorno prima del viaggio di Benedetto XVI a Cipro, ultimo lembo d’Europa su questa inquieta frontiera, apre uno scenario per molti versi preoccupante.    

      «Porta e non muro è stata la vita di monsignor Padovese»: così l'ha voluto ricordare l'arcivescovo di Milano (città natale di monsignor Padovese), il Cardinale Dionigi Tettamanzi, nel suo intervento alla fine della processione del Corpus Domini a cui ha partecipato tra gli altri il sindaco del capoluogo lombardo, Letizia Moratti. Al vicario apostolico dell'Anatolia, assassinato in casa, l'arcivescovo ha voluto dedicare un pensiero «commosso e sgomento» rivolto «a un figlio della nostra terra - ha detto - che ha servito con dedizione in Turchia il Vangelo della pace e della misericordia».
 
     Per tre volte il Cardinale Dionigi Tettamanzi ha definito la vita del missionario porta e non muro verso la bellezza e l'amore di Cristo. «Porta e non muro è stata la vita di monsignor Padovese, spesso sotto scorta eppure così libera di annunciare il Vangelo in terra arida»; «porta e non muro - ha aggiunto - la Chiesa che egli ha voluto, piccolo gregge aperto all'amicizia delle genti; porta e non muro per accogliere fino alla fine, come te Signore Gesù, le lacerazioni che abitano il cuore dei popoli e degli uomini, anche di colui che ha follemente levato la sua mano e per il quale egli continua ad essere fratello e padre».

Il dialogo, necessità e virtù

La Turchia conta circa 70 milioni di abitanti. La stragrande maggioranza è composta da musulmani. I cristiani sono 140 mila, di cui 30 mila cattolici. Il desiderio di dialogo che ha sempre animato monsignor Luigi Padovese emerge anche nell'ultima intervista rilasciata a Radio Vaticana il 5 febbraio 2010. In essa, monsignor Padovese  parte dal ricordo di don Andrea Santoro il sacerdote "fidei donum" ucciso quattro anni fa nella chiesa di Santa Maria a Trabzon (Trebisonda). 

      "Mi piace rilevare che sia stato ucciso come simbolo, come realtà di sacerdote cattolico", esordisce monsignor Padovese. "Non è stata uccisa soltanto la persona, ma si è voluto colpire il simbolo che la persona rappresentava: ricordarlo in questo momento, all’interno dell’anno dedicato ai sacerdoti, è quanto mai significativo, per ricordare a tutti noi che la sequela di Cristo può arrivare anche all’offerta del proprio sangue.

"A che punto è il dialogo in Turchia, monsignor Padovese?", domanda il giornalista di Radio Vaticana.

    "Il dialogo in Turchia segue momenti alterni", risponde il vicario apostolico in Anatolia. "Ci sono tante espressioni di buona volontà da parte anche delle autorità. Si intende il dialogo con la parte civile. Devo dire però che effetti vistosi di questo dialogo ancora non se ne vedono tanti. Un buon rapporto si è creato con il nuovo ambasciatore di Turchia presso la Santa Sede, anche con alcune autorità locali, ci sono attestazioni di volontà di collaborazione. Ecco su questo punto devo dire che i segni ci sono. Per quello che riguarda poi certe richieste concrete che sono state fatte, come ad esempio la Chiesa di Tarso, ci troviamo in una situazione ancora di stallo.

"Qual è l’impegno della Chiesa, quotidiano e a medio termine, per incentivare il dialogo?", chiede ancora Radio Vaticana.

     "Abbiamo avuto l’incontro della Conferenza episcopale turca, e pensiamo che il dialogo debba innanzitutto partire da una presa di coscienza dei cristiani stessi in Turchia, cioè essere coscienti della propria identità e di quello che sono. E’ inutile pensare a un dialogo con chi non è cristiano, quando non si è pienamente consapevoli di quello che si è. Quindi buona parte della nostra azione pastorale quest’anno, è e sarà concentrata nel rendere i cristiani più consapevoli della propria identità. A parte questo ci saranno i momenti di incontri a livello nazionale per i sacerdoti del Paese e i vescovi a Efeso. E’ la prima volta che come comunità cristiane di diversi riti ci ritroviamo a pregare e a riflettere insieme sulle situazioni della Chiesa in Turchia".

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