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giovedì 10 ottobre 2024
 
Turchia
 

Erdogan e gli Usa, c'eravamo tanto amati

17/07/2016  Riflessioni geopolitiche all'indomani del golpe: storia dell'incrinarsi di un rapporto strategico (più per Washington che per Ankara). E alla fine ci guadagna Putin...

In mancanza di verità si usano le ipotesi. E sul golpe dell’altro giorno in Turchia le ipotesi sono due: è stato un golpe mancato oppure è stato un golpe finto. È stato un golpe organizzato male e quindi fallito oppure è stato un golpe di cartapesta, in qualche modo provocato dallo stesso Recep Erdogan per consolidare il proprio potere. Senza mancare di rispetto ai quasi 300 morti della notte cruciale, è possibile dire che all’atto pratico tra l’una e l’altra ipotesi c’è poca differenza. Vediamo perché.

Se è stato un golpe vero ma finito male, è impossibile che gli Usa non ci abbiano messo lo zampino.
La Turchia è nella Nato dal 1952 e mette a disposizione dell’Alleanza Atlantica il secondo esercito più potente (oltre 500 mila effettivi) dopo quello degli Usa. I rapporti tra gli ambienti politici americani e quelli militari turchi sono da decenni intensi e più che cordiali e i generali turchi sono sempre stati visti, a Washington, come un baluardo prima contro l’espansionismo sovietico poi contro quello islamico. Il golpe del 1960 fu orchestrato dal colonnello Alparslan Turkes, che era stato uno del primo gruppo di ufficiali turchi a essere addestrato negli Usa nel 1948 per essere inserito nell’organizzazione anticomunista Stay-Behind. Il golpe del 1970, detto “del Memorandum”, fu organizzato dal generale Memduh Tagmac, capo di Stato Maggiore, in chiave anti-islamica, per obbligare il premier Demirel ad agire “ispirato dalle idee di Ataturk” per “implementare le leggi riformiste previste dalla Costituzione” (come chiedeva appunto il Memorandum dei generali). E quello del 1980, diretto contro la sinistra, portò al potere il generale Kenan Evren con la simpatia esplicita di Washington.

Se invece è stato un golpe finto, Erdogan l’ha “organizzato” anche perché, evidentemente, il rapporto con Washington non era più quello di prima. Si spiegano solo così le accuse agli Usa dei suoi ministri e quella sorta di rozzo ricatto agli Usa che ha destato l’ira della Casa Bianca: vi blocco la base aerea di Incirlik finché non estradate il mio nemico (e vostro complice) Fethullah Gulen. Gulen è stato per lunghi anni la “mente” dietro il braccio di Erdogan. Con le sue scuole, i giornali e le radio, il predicatore Gulen ha costruito le fondamenta dell’islamismo moderato di cui Erdogan si è servito per dare la scalata al potere.

È vero, dal 1999 Gulen vive negli Usa sotto la protezione dei servizi segreti americani. Ma perché avrebbe dovuto agire proprio adesso? Potrebbe essere stato imbeccato dagli stessi americani, ma allora si torna all’ipotesi del golpe vero. L’una e l’altra strada portano comunque a segnalare un’unica cosa: l’alleanza tra Turchia e Usa non è più quella di prima. Ed è facile capire perché. La Turchia di Erdogan è diventata negli ultimi anni un cavallo pazzo, una scheggia impazzita nella rete di influenza politica globale costruita dagli Usa. Anche solo andando a memoria, Erdogan ha chiuso poche settimane fa anni di dura contesa con Israele e si è dovuto umiliare con Putin per risolvere la polemica con la Russia dopo l’abbattimento del caccia russo al confine tra Siria e Turchia. L’ingerenza turca nelle vicende siriane si è risolta in un ennesimo fallimento, con l’aggravante che Erdogan si è trovato persino a sparare sui guerriglieri curdi alleati degli Usa nel Nord della Siria. La questione curda è più aperta che mai e tra attentati curdi e repressioni turche il Paese soffre ormai di una instabilità cronica.

Non ci sarebbe da stupirsi se gli Usa avessero organizzato o benevolmente atteso un golpe che li liberasse di Erdogan. Allo stesso modo e per le stesse ragioni, Erdogan potrebbe aver deciso di precedere qualcosa che sentiva muoversi contro di lui. Anche sul fronte interno si può ragionare in modo analogo. Da anni Erdogan lavora a indebolire i militari, proprio per mettersi al riparo da quella che è sempre stata, in Turchia, la spada di Damocle sul potere civile: l’intervento appunto dei militari. Idem per i 2.745 magistrati e i 53 giudici già finiti in carcere: il potere giudiziario era ormai rimasto l’unico a mantenere un briciolo di indipendenza. L’ultima rovente polemica tra Erdogan e la magistratura si era avuta quando la Corte Costituzionale aveva rimesso in libertà, in attesa di giudizio, Can Dundar ed Erdem Gul, i giornalisti che avevano rivelato il traffico di armi tra la Turchia e l’Isis. Il Presidente aveva dichiarato: “Io non accetto né rispetto questa sentenza”. Quindi, anche qui: che il golpe sia stato vero ed Erdogan sia riuscito a sventarlo, oppure sia stato finto e sia stato organizzato da Erdogan, la conclusione pratica è la stessa: il Presidente sta facendo saltare gli ultimi argini di democrazia della Turchia, proprio mentre Obama, la Merkel e lo stesso Renzi spendono aeree parole proprio sulla necessità di rispettare la democrazia (quella di Erdogan) turca.

Le ipotesi “golpe vero” o “golpe finto” tornano a contare quando si passa alle speculazioni sul futuro. È vero che Recep Erdogan è oggi più forte di due giorni fa. Ma soprattutto se è stato un “golpe vero”, sventato con l’appoggio decisivo della popolazione. Se invece è stato un “golpe finto”, vuol dire che Erdogan si sentiva minacciato, se non addirittura accerchiato, e che è dovuto ricorrere a un triplo salto mortale per conservare il potere. E le acrobazie, si sa, non sempre riescono. Per chiudere, vale la pena di segnalare che la crisi turca ha, forse, un vincitore anche fuori della Turchia. Pensiamo a Vladimir Putin e alla Russia con cui Erdogan si è da poco riconciliato. I due leader, già nelle prime ore dopo il golpe, hanno concordato di incontrarsi “al più presto”. Una sponda russa potrebbe servire a Erdogan dal punto di vista economico (la rottura Ankara-Mosca è costata cara alla Turchia) ma soprattutto dal punto di vista politico. Come stampella internazionale se il contrasto con gli Usa dovesse proseguire e aggravarsi e come interlocutore di peso nella crisi siriana e, ancor più, nella sua eventuale soluzione politica. Anche su questo la nebbia dovrebbe diradarsi presto.

 

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