In
mancanza di verità si usano le ipotesi. E sul golpe dell’altro
giorno in Turchia le ipotesi sono due: è stato un golpe mancato
oppure è stato un golpe finto. È stato un golpe organizzato male e
quindi fallito oppure è stato un golpe di cartapesta, in qualche
modo provocato dallo stesso Recep Erdogan per consolidare il proprio
potere. Senza
mancare di rispetto ai quasi 300 morti della notte cruciale, è
possibile dire che all’atto pratico tra l’una e l’altra ipotesi
c’è poca differenza. Vediamo perché.
Se
è stato un golpe vero ma finito male, è impossibile che gli Usa non
ci abbiano messo lo zampino. La Turchia è nella Nato dal 1952 e
mette a disposizione dell’Alleanza Atlantica il secondo esercito
più potente (oltre 500 mila effettivi) dopo quello degli Usa. I
rapporti tra gli ambienti politici americani e quelli militari turchi
sono da decenni intensi e più che cordiali e i generali turchi sono
sempre stati visti, a Washington, come un baluardo prima contro
l’espansionismo sovietico poi contro quello islamico. Il golpe del
1960 fu orchestrato dal colonnello Alparslan Turkes, che era stato
uno del primo gruppo di ufficiali turchi a essere addestrato negli
Usa nel 1948 per essere inserito nell’organizzazione anticomunista
Stay-Behind. Il golpe del 1970, detto “del Memorandum”, fu
organizzato dal generale Memduh Tagmac, capo di Stato Maggiore, in
chiave anti-islamica, per obbligare il premier Demirel ad agire
“ispirato dalle idee di Ataturk” per “implementare le leggi
riformiste previste dalla Costituzione” (come chiedeva appunto il
Memorandum dei generali). E quello del 1980, diretto contro la
sinistra, portò al potere il generale Kenan Evren con la simpatia
esplicita di Washington.
Se
invece è stato un golpe finto, Erdogan l’ha “organizzato”
anche perché, evidentemente, il rapporto con Washington non era più
quello di prima. Si spiegano solo così le accuse agli Usa dei suoi
ministri e quella sorta di rozzo ricatto agli Usa che ha destato
l’ira della Casa Bianca: vi blocco la base aerea di Incirlik finché
non estradate il mio nemico (e vostro complice) Fethullah Gulen.
Gulen è stato per lunghi anni la “mente” dietro il braccio di
Erdogan. Con le sue scuole, i giornali e le radio, il predicatore
Gulen ha costruito le fondamenta dell’islamismo moderato di cui
Erdogan si è servito per dare la scalata al potere.
È vero, dal
1999 Gulen vive negli Usa sotto la protezione dei servizi segreti
americani. Ma perché avrebbe dovuto agire proprio adesso? Potrebbe
essere stato imbeccato dagli stessi americani, ma allora si torna
all’ipotesi del golpe vero.
L’una
e l’altra strada portano comunque a segnalare un’unica cosa:
l’alleanza tra Turchia e Usa non è più quella di prima. Ed è
facile capire perché.
La Turchia di Erdogan è diventata negli
ultimi anni un cavallo pazzo, una scheggia impazzita nella rete di
influenza politica globale costruita dagli Usa. Anche solo andando a
memoria, Erdogan ha chiuso poche settimane fa anni di dura contesa
con Israele e si è dovuto umiliare con Putin per risolvere la
polemica con la Russia dopo l’abbattimento del caccia russo al
confine tra Siria e Turchia. L’ingerenza turca nelle vicende
siriane si è risolta in un ennesimo fallimento, con l’aggravante
che Erdogan si è trovato persino a sparare sui guerriglieri curdi
alleati degli Usa nel Nord della Siria. La questione curda è più
aperta che mai e tra attentati curdi e repressioni turche il Paese
soffre ormai di una instabilità cronica.
Non ci sarebbe da stupirsi
se gli Usa avessero organizzato o benevolmente atteso un golpe che li
liberasse di Erdogan. Allo stesso modo e per le stesse ragioni,
Erdogan potrebbe aver deciso di precedere qualcosa che sentiva
muoversi contro di lui. Anche
sul fronte interno si può ragionare in modo analogo. Da anni Erdogan
lavora a indebolire i militari, proprio per mettersi al riparo da
quella che è sempre stata, in Turchia, la spada di Damocle sul
potere civile: l’intervento appunto dei militari.
Idem per i 2.745
magistrati e i 53 giudici già finiti in carcere: il potere
giudiziario era ormai rimasto l’unico a mantenere un briciolo di
indipendenza. L’ultima rovente polemica tra Erdogan e la
magistratura si era avuta quando la Corte Costituzionale aveva
rimesso in libertà, in attesa di giudizio, Can Dundar ed Erdem Gul,
i giornalisti che avevano rivelato il traffico di armi tra la Turchia
e l’Isis. Il Presidente aveva dichiarato: “Io non accetto né
rispetto questa sentenza”. Quindi,
anche qui: che il golpe sia stato vero ed Erdogan sia riuscito a
sventarlo, oppure sia stato finto e sia stato organizzato da Erdogan,
la conclusione pratica è la stessa: il Presidente sta facendo
saltare gli ultimi argini di democrazia della Turchia, proprio mentre
Obama, la Merkel e lo stesso Renzi spendono aeree parole proprio
sulla necessità di rispettare la democrazia (quella di Erdogan)
turca.
Le
ipotesi “golpe vero” o “golpe finto” tornano a contare quando
si passa alle speculazioni sul futuro. È vero che Recep Erdogan è
oggi più forte di due giorni fa. Ma soprattutto se è stato un
“golpe vero”, sventato con l’appoggio decisivo della
popolazione. Se invece è stato un “golpe finto”, vuol dire che
Erdogan si sentiva minacciato, se non addirittura accerchiato, e che
è dovuto ricorrere a un triplo salto mortale per conservare il
potere. E le acrobazie, si sa, non sempre riescono. Per
chiudere, vale la pena di segnalare che la crisi turca ha, forse, un
vincitore anche fuori della Turchia. Pensiamo a Vladimir Putin e alla
Russia con cui Erdogan si è da poco riconciliato. I due leader, già
nelle prime ore dopo il golpe, hanno concordato di incontrarsi “al
più presto”.
Una sponda russa potrebbe servire a Erdogan dal punto
di vista economico (la rottura Ankara-Mosca è costata cara alla
Turchia) ma soprattutto dal punto di vista politico. Come stampella
internazionale se il contrasto con gli Usa dovesse proseguire e
aggravarsi e come interlocutore di peso nella crisi siriana e, ancor
più, nella sua eventuale soluzione politica. Anche su questo la
nebbia dovrebbe diradarsi presto.