Per l’ottava volta papa Francesco
va in una parrocchia di
Roma, la sua diocesi. E alla vigilia
di Natale lancia un appello
contro il consumismo,
dicendo che «un bel pranzone
» è una bella cosa, ma non
basta e non fa la «vera gioia
cristiana.
Non è con il consumismo che
ci prepariamo alla festività del Natale.
Non arriviamo al 24 dicembre dicendo
mi manca questo e mi manca quello.
Questa non è la vera gioia cristiana».
Le indicazioni di papa Francesco sono
diverse. «In questi giorni pensiamo
dove posso andare a portare sollievo a
chi soffre». Bergoglio quando va nelle
parrocchie non prepara discorsi. Si affaccia,
osserva e parla. E si vede che è
molto contento. A San Giuseppe all’Aurelio
è salito su una pedana di legno coperta
da un tappeto nel cortile della parrocchia
e ha raccontato del giorno della
sua prima Comunione, settant’anni fa,
l’8 ottobre 1944: «A quel tempo prima
della Messa tu non potevi nemmeno bere
un goccio d’acqua. È stato Pio XII che
ci ha salvato da questa dittatura».
Poi in una stanza dell’oratorio vede i neonati
che quest’anno hanno ricevuto il battesimo
in braccio ai loro genitori. Li bacia
uno per uno. E affronta una questione
che imbarazza i genitori, che non
sanno bene cosa fare se un bambino disturba
in chiesa, perché a volte i preti
s’adombrano e li invitano a uscire.
Ed
ecco che il Papa a loro dice che non bisogna
preoccuparsi, perché «il pianto di un bambino in chiesa è la migliore
predica». Non fa discorsi difficili, Francesco,
racconta esperienze. Per dire dell’importanza
della catechesi e di coloro che trasmettono
la fede torna con la memoria
alla sua vecchia catechista, una suora argentina:
«Quando la mia catechista è
morta il 17 ottobre 1987 io sono stato a
lungo a pregare sulla sua salma, perché
quella suora mi ha avvicinato a Gesù».
Poche parole che lasciano il segno alle
quali aggiunge un ammonimento:
«Non dimenticare i catechisti. Non dimenticare
la data del battesimo e ogni
anno nella ricorrenza andare a fare una
confessione e la Comunione». Poi alza
la mano e chiede: «D’accordo?».
Che i rom abbiano lavoro
Il Papa non
teme di dire cose che non sono tanto
corrette per il modo di pensare dei più.
A San Giuseppe domenica scorsa ne ha
detta una grossa. Ha chiesto che si trovi
lavoro anche per i rom, quelli che tutti
respingono, perché rubano, perché puzzano.
I rom stanno in fondo alla fila,
reietti, salvo essere oggetto di speculazione
come risulta dall’inchiesta sulla
mafia capitolina.
Qualcuno si aspettava
che il Papa potesse dire qualcosa sull’indagine
che ha squassato Roma. Invece
no. Ma Bergoglio è andato oltre, chiedendo
lavoro e ringraziando i volontari,
quelli veri. Così con poche parole ha
sbaragliato ogni ipocrisia, compresa
quella dell’elemosina che poi lascia le
cose come stanno. Lo ha detto in una
parrocchia che da 15 anni si occupa di
rom e famiglie sull’orlo della fame, distribuisce
cibo, e lotta perché nessuno
perda la dignità.
Spiega il parroco don
Giuseppe Lai: «All’inizio facevamo noi
una scuola per i figli dei rom. Poi abbiamo
deciso che era più giusto portarli a
scuola». I religiosi che reggono la parrocchia
d’altra parte hanno alle spalle la
grande scuola del loro fondatore don
Giuseppe Marello, sacerdote piemontese
dei tempi di don Bosco, del Cottolengo,
di don Cafasso.
Lui stesso andò a vivere
con i malati cronici e gli anziani dimenticati
da tutti ad Asti, pur essendo
direttore del seminario e canonico della
cattedrale. Qualcuno lo commiserava.
Giovanni Paolo II l’ha canonizzato nel
2001. Con Bergoglio c’è anche un piccolo
legame. Giuseppe Marello passò l’infanzia
a San Martino Alfieri, il paese dove
nacque Maria Bugnano, la bisnonna
paterna di Jorge Mario Bergoglio