Il bersaglio è un tondino nero. Piccolissimo, lontanissimo. La distanza tra la vittoria e la sconfitta si misura a millimetri e, a 50 metri, nella diottra – il mirino della carabina – i millimetri non si vedono. La sfida più grande è impedire che il buco nero del bersaglio diventi un’ossessione che attira a sé il tiratore, la sua vita, il suo senso. Petra Zublasing e Niccolò Campriani hanno 27 e 28 anni, hanno vinto molto ognuno per sé. Tra l’uno e l’altra fanno più medaglie di un raduno degli alpini, la più pesante fino all'8 agosto 2016 in cui ha raddopiato a Rio, l’oro olimpico vinto da Niccolò a Londra 2012. In mezzo c'è stato un cambio di regolamenti digerito inizialmente a fatica.
Insieme, Petra e Nicco combattono ogni giorno il rischio di restare prigionieri del tondino, con lucidità e autoconsapevolezza tali da renderli atleti specialissimi, anche al netto del fatto che sono due ingegneri laureati negli Stati Uniti, lei civile, lui meccanico, specializzato a Sheffield in Ingegneria dello sport. Petra e Nicco sono fidanzati. D’inverno si allenano nel chiuso un po’ ovattato e un po’ opprimente di quella specie di bunker verdolino che è l’impianto di Appiano sulla strada del vino, in provincia di Bolzano, dove lei è cresciuta e dove da qualche tempo abitano. Dopo ore lì dentro, condividere il resto vuol dire arginare l’invadenza di un bersaglio al cubo. Niccolò la spiega così: «Si tratta di imparare la giusta distanza: perché, se fare un’Olimpiade
con le sue tensioni è un’esperienza estrema, farne due – caricandosi anche le ansie dell’altro – è disumano». E allora stare insieme facendo, assieme, lo stesso sport, significa anche trovare vivendo la strada per rendere più efficace l’interruttore tra il mondo del tiro e la vita di fuori, per spegnerlo davvero la sera con la luce che punta sui bersagli.
Dirlo non è come farlo
Petra, grattando le consonanti nel suo italiano di madrelingua tedesca, lo spiega benissimo, aprendo un sorriso che contrasta con la
ruvidezza dei suoni: «Se sono alle Olimpiadi e muoio di paura, telefono alla mamma, parlo con l’allenatore o con lo psicologo. Con Nicco no, anche se vorrei, perché so che non può farcela. Non è stato automatico, ho dovuto imparare». Non tutte le sere sono come dopo la Coppa del mondo, quando si può festeggiare in due. È più facile che si debba trovare senza ferirsi l’equilibrio instabile
tra la soddisfazione di uno e la delusione dell’altro: «Se perdi, in condizioni normali, puoi decidere di rosicare nel tuo e di
non frequentare i vincitori: con la fidanzata invece ci sei. E se ha vinto lei devi imparare a governare i tuoi fantasmi». Ci sono mille modi diversi, per farlo: condividere un libro, una camminata in montagna, magari un film se solo in Italia non fosse così difficile trovarne uno in inglese per avere, almeno lì, una lingua comune alla pari, in attesa di condividere abbastanza vita da capirsi ciascuno nella propria lingua madre senza dover più tradurre le emozioni tra il toscano di lui e il tedesco di lei. Con i fantasmi Niccolò ha fatto prima da solo un lungo lavoro, che racconta con intelligenza nel libro Ricordati di dimenticare la paura: «In allenamento i dieci punti nel bersaglio sono routine, li fai di regola. Puoi raccontarti che il gesto è sempre quello, ma all’ultimo tiro della finale olimpica non puoi ingannare te stesso. Tu sai che cosa hai in questione».
Tutto in gioco
Nicco che per un tiro a Pechino ha «perso una finale olimpica» sa di che parla: «Avevo paura di sbagliare e ho sbagliato. Dopo Pechino ho anche rischiato di andare a fondo, perché da quell’ultimo tiro dipendeva non solo una gara, ma la stima che avevo di me.
Era quello il vero errore, ora lo so». Oggi a quel tiro sbagliato probabilmente Niccolò deve il fatto di aver cambiato prospettiva: poteva lasciarsi risucchiare dal tondino nero e invece è partito per l’America. La fatica di cambiare vita, di stare in pari con gli studi, il lavoro con uno psicologo hanno fatto il resto. Ma senza quel tiro, probabilmente, Nicco non avrebbe neanche notato Petra,
perché non gli sarebbe venuto il tarlo di scoprire il segreto di quella ragazzina ancora junior che per un po’ (prima di conoscerla)
ha detestato per la sicurezza con cui centrava un «dieci bello» dietro l’altro, senza timori apparenti. Il segreto non c’era. Il segreto era lei com’è ancora: «Anch’io ho paura, certo. Ma, forse perché non ho il talento di Nicco, io devo sempre giocarmela all’attacco, tirando fuori la grinta: in gara, all’esame di guida, al test all’università. Lui invece in gara spara sempre un po’ in difesa».
Ma si farebbe torto alla complessità di Petra se si riducesse tutto a una determinazione asburgica: sarebbe ingiusto fermarsi a quello che lei, con espressione felicissima, ha definito “il guscio”. A costruirlo non basta certo la tuta semirigida di canvas con cui si fanno le gare e che – ride Nicco – «fa tanto camminata sulla luna». Serve l’autoeducazione che il tiro ti costruisce mentre cresci. «Ti insegna a fare i conti con la tua solitudine davanti al mirino: ecco che cosa c’è di diverso nel sentirsi due. Quando ti scopri innamorata capisci che quel guscio protettivo che ti rende solida diventa più fragile, è un’altra delle cose che ho dovuto imparare». La giusta distanza, appunto: dal mirino e dall’altro. Si chiama equilibrio: «È fragile, perché la vecchietta che al bar ti dice “Ma come, solo terza?” rischia di ricacciarti indietro allo stadio dell’autostima formato classifica». E invece per loro la soddisfazione è un «dieci bello», non «miracolato», che non è solo centro ma è «tutto per bene». La ragione per cui Nicco, dopo l’oro di Londra, ha sognato un’altra finale olimpica. Per farci pace.