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La voce delle donne afghane

11/02/2014  Suraya Pakzad dirige la Voice of Women Organization, la prima organizzazione femminile a sorgere nel post regime talebano per rivendicare i diritti delle donne. Nel 2008 ha ricevuto il premio “Women of Courage” del Dipartimento di Stato Usa.

Suraya Pakzad, direttrice dell'organizzazione Voice of Women (Foto di Romina Gobbo).
Suraya Pakzad, direttrice dell'organizzazione Voice of Women (Foto di Romina Gobbo).

«Non pensate che l'Afghanistan abbia bisogno solo di uomini. Anche le donne devono fare la loro parte. Tutti dobbiamo contribuire per lo sviluppo della nostra nazione». Lo disse la regina Soraya che, nel 1928, abolì l'obbligatorietà del velo, scoprendo per prima il suo volto, durante un Gran Consiglio.

E Suraya Pakzad, questa missione l'ha fatta propria. Executive Director di Voice of Women Organization, sposatasi a 14 anni e madre di sei figli, questa donna dai lineamenti dolci, ma decisi, è scomoda. Ma le minacce di morte non l'hanno fermata (in Afghanistan, le minacce alle donne che si occupano di donne sono all'ordine del giorno. Fanno parte del proprio profilo professionale!). E lei è arrivata fino alle Nazioni Unite per denunciare gli abusi che patiscono le donne afghane.

Per questo impegno, nel 2008 ha ricevuto il premio “Women of Courage” del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e, nello stesso anno, le è stato assegnato il “Malali Medal” dal presidente dell'Afghanistan. Inoltre, la rivista Time l'ha riconosciuta nel maggio 2009, come una delle cento persone più influenti del mondo.

Suraya, fresca di laurea in Lettere all'Università di Kabul, inizia ad insegnare alle donne a leggere e scrivere. Era il 1998, l'Afghanistan era sotto il regime dei talebani. La giovane attivista deve agire in clandestinità, cambiando continuamente sede per le lezioni, per paura di essere scoperta. Perché allora la vita delle donne era un inferno, trattate come cittadine di serie b. Niente lavoro fuori casa,
solo matrimoni  combinati, reclusione totale, la donna transitava come proprietà, dalla famiglia di origine a quella del marito. Nel 2001, Voice of Women Organization esce allo scoperto; prima organizzazione femminile a sorgere nel dopo-talebani, è apolitica e apartitica e lavora per la promozione socio-economica delle donne e delle ragazze. Dal 2004, opera con sede principale nella città di Herat e tre sedi secondarie in Ghor, Badghis e Farah, province dell'Afghanistan occidentale. Ha uffici di collegamento a Philadelphia, negli Usa, e ad Adelaide, in Australia.

Suraya, com'è cambiata la condizione della donna dopo i talebani?

«Adesso le donne possono uscire, possono studiare, anche all’università e ottenere un dottorato di ricerca. Molte hanno una propria attività commerciale. Ci sono donne anche in politica, nel parlamento e donne attive nella società civile. Se si confronta la situazione odierna con quella precedente, le donne oggi stanno meglio, ma se si considera ciò a cui la donna ha diritto, allora si capisce che c’è ancora tanta strada da fare. La violenza domestica è a livelli drammatici e le donne difficilmente vengono supportate dalle famiglie qualora volessero denunciare».

Sono 1.700 le donne che negli anni hanno ricevuto aiuto da Voice of Women Organization. Si va dalla semplice fornitura di cibo e vestiti, all'accoglienza in strutture protette (l'associazione detiene 5 shelter nella provincia di Herat e 5 sportelli informativi nelle province più grandi), dalla consulenza familiare, psicologica e legale, all'istruzione, dalla formazione professionale, all'inserimento lavorativo, fino alla gestione di asili, dove le donne che lavorano possono lasciare i figli in sicurezza. Il problema della violenza domestica è il più urgente e difficile da sradicare.

«Le nostre case rifugio hanno una capacità per 40 donne, attualmente ce ne sono 81 e 11 bambini - riprende Suraya -. Accogliamo chi scappa da un marito violento, ma anche chi esce di prigione o dai centri di correzione (le donne finiscono in carcere per abbandono del tetto coniugale, per uxoricidio, per adulterio, e anche per aver disubbidito ad un matrimonio comandato; con una pena che va dai 5 ai vent'anni, ndr)».

“Sono cambiato, avrò cura di te, non ti picchierò più, ho capito, ti amo, torna a casa”... Mille promesse. Sharbat prova a crederci ancora e torna. Un marito vecchio, violento, che le impedisce di uscire, e la picchia. Il corpo le duole a causa delle percosse. «In Afghanistan, se si riesce a dimostrare l'abuso da parte del marito, si può divorziare, ma va provato. Così come è considerato un crimine che i padri impongano alle figlie il matrimonio», spiega Suraya. Ma Sharbat tutto questo non lo sa, e decide di auto-immolarsi.

Come lei, tante altre. L'ospedale Istiqlal di Kabul, finanziato dalla Cooperazione italiana, ha un reparto riservato alle ustioni, il 90 per cento dei pazienti sono donne e poche si salvano. Naturalmente, le versioni delle famiglie, sono sempre di errori domestici. Tra marzo 2009 e marzo 2010 si sono registrati 103 casi di auto-immolazione. Per questo, Voice of Women ha avviato una campagna specifica. Altro settore di intervento è l'aiuto alle vedove, circa 2 milioni e mezzo nel Paese, di cui 70mila a Kabul. Dopo la morte del marito, sono sottoposte a stupri, da parte di padri e cognati, ridotte in povertà, e sottoposte a condanna sociale. Qualcuna tenta il suicidio, dandosi fuoco o ingerendo dell'acido. «Con la perdita del marito, una donna perde, non solo la sua identità, ma anche il suo posto nella società», continua Suraya.

Il Governo supporta il vostro operato?

«Il Governo attualmente si occupa solo della sicurezza in termini militari e così pure la comunità internazionale, purtroppo tutti si dimenticano della sicurezza sociale. Vengono fornite armi e rafforzati i controlli di polizia, ma la sicurezza sociale è più importante perché aiuterebbe a ridurre il livello di povertà in cui si trovano le donne, i bambini avrebbero maggiori possibilità per andare a scuola. Spero che i Paesi che abbandoneranno l’Afghanistan quest’anno non si dimentichino delle donne, che devono poter partecipare ai processi decisionali, perché nessun Paese può progredire se le donne non partecipano al suo sviluppo».

Si è recentemente detto che il presidente Karzai voleva reintrodurre la lapidazione nella Costituzione. Che cosa ne pensa?

«La Costituzione tutela con tre articoli i diritti delle donne e la parità, ma tutti i buoni propositi del Governo Karzai sono stati disattesi. I diritti delle donne sono diventati il compromesso per la pace in Afghanistan. Nella Costituzione, dunque, uomini e donne sono uguali, ma Karzai voleva rimuovere questo articolo, a causa della pressione dei talebani. Per fortuna, c'è stata l'indignazione unanime della comunità internazionale e le organizzazioni femminili hanno protestato; così Karzai ha dovuto fare marcia indietro».

L'Afghanistan è tra i primi venti Paesi al mondo per quanto attiene al numero di parlamentari donne: in Parlamento siedono 69 donne, pari al 28% del totale. Agli avanzamenti nella partecipazione politica, però, non sono corrisposti analoghi progressi su altri piani: soltanto il 5,8% delle donne afghane ha un titolo di scuola superiore (contro il 34% degli uomini); per ogni 100mila nascite, 460 donne muoiono di parto; la presenza delle donne sul mercato del lavoro è pari al 15,7% del totale (contro l'80,3% degli uomini).

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