La protesta infiamma e serpeggia in Turchia da giorni, con
migliaia di persone nelle piazze di 67 città tra cui Instanbul, Ankara e
Smirne. Una “rivoluzione”, quella turca, contro il governo al potere
dal 2002 di Recep Tayyip Erdogan al grido di
“Dittatore, dimettiti! Noi resisteremo fino alla vittoria”. Ne parliamo
con Riccardo Redaelli, associato di 'Geopolitica' e di 'Storia e
istituzioni del mondo musulmano' presso la Facoltà di Scienze Politiche
dell'Università Cattolica di Milano.
Tanti i livelli che si mescolano nella protesta, a partire
dall’occasione contestuale di abbattere una vasta area verde a Istanbul
in vista della costruzione del terzo ponte sul Bosforo per costruire una
moschea, caserme e un centro commerciale.
«Contestuale appunto. Le proteste ecologiste contro la speculazione
edilizia del centro sono state solo l’occasione. Da tempo sostengo che
Erdogan non rappresenta l’islam moderato ma che è solo prudente e furbo
nel mettere le basi del potere islamista. Il tentativo suo e dei suoi è
di trasformare la Turchia kemalista in una in cui la narrativa islamista
è centrale. Questo di fatto è già avvenuto con l’abbattimento di alcuni
capisaldi della Turchia secolare, laicista: il ritorno al velo,
l’occupazione di tutte le cariche, dal governo al presidente della
Repubblica, all’eliminazione dalle forze armate dei vertici kemalisti.
Questa trasformazione che è stata soprattutto sin qui in termini di
presa di potere e di certe manifestazioni simboliche, ora sta
progredendo anche agli aspetti sociali della quotidianità. Con continui
messaggi di stop and go, tra l’obbligo di gonne lunghe, il divieto al
rossetto e ai baci nei parchi, da ultimo con lo stop all’alcol vicino
alle moschee. Erdogan ora si sente più sicuro dopo aver lavorato per
dieci anni con prudenza, non con moderazione, per smantellare il sistema
kemalista. E oggi lo fa andando a colpire le basi socio – culturali,
quelle che determinano la re-islamizzazione ».
Nel biennio 2010-2011 mentre l’Europa affannava nel mezzo delle due
crisi, la Turchia cresceva di quasi il 10 per cento annuo. Lo scorso
anno si è registrata una forte frenata, il prodotto interno lordo è
cresciuto di solo il 2,2 per cento. Può aver inciso il fattore economico
nelle rivolte?
«La Turchia con Erdogan, è vero, ha
conosciuto una grande crescita ma non è stato solo merito suo. Ci sono
alcuni dati strutturali e geopolitici per cui la Turchia era destinata a
crescere. Tra questi, la guerra in Iraq che ha aperto un Kurdistan che
di fatto è un protettorato economico turco, gli scambi con l’Asia, il
gas iraniano. Va dato atto ad Erdogan che il suo governo è stato meno
corrotto e più efficiente dei governi precedenti. Mentre lo stop
economico di adesso è contingente ma non strutturale. E’ stata la voglia
di ridurre la libertà a scatenare la rivolta».
Per concludere, si può parlare di “primavera turca”?
«Personalmente
ho una certa allergia alla parola primavera che viene solo dopo un
autunno lungo e piovoso; particolarmente in Turchia non ne vedo
l’attinenza essendo una grande repubblica. Come altrove in Medio
Oriente, credo si debba parlare di reazione alla trasformazione
islamista che detta un’agenda politica profondamente divisiva e non
inclusiva. Imporre certi comportamenti accentua la divisione socio
culturale ed ecco che le piazze si infiammano».