In maglietta, jeans e scarpe da ginnastica, Giuliana De Sio combina con un’amica al telefono una partita a tennis. «Ieri una filippina mi ha distrutta: all’inizio vincevo per 4 a 0 ed ero tutta contenta perché mi avevano detto che era molto brava. E infatti subito dopo...». A 57 anni, sempre bellissima, si è riappropriata della sua vita dopo che due anni fa ha rischiato di perderla per colpa di una trombosi mal diagnosticata. E anche sul lavoro le cose vanno a gonfie vele: la fiction Furore in onda su Canale 5, in cui interpreta una battagliera sindacalista che si innamora di un immigrato siciliano nell’Italia del boom, sta andando molto bene. Lei dice di non essersi mai impegnata a livello politico: «In passato mi è stato proposto tante volte ma ho sempre rifiutato. E guardo con un po’ di sospetto gli artisti che sono molto attivi in campagne sociali. Se c’è qualche iniziativa semplice, che non può essere strumentalizzata, aderisco, altrimenti il mio impegno si concretizza nella vita di tutti i giorni, cercando di comportarmi in modo etico. Anche se non sono certo una santa».
Di recente hai postato su Facebook una tua foto in cui armeggiavi con un fornello elettrico, perché ti avevano tolto luce e gas. Cosa è successo?
«Nel mio palazzo c’è stata una perdita di gas e rischiavamo di saltare tutti in aria. Il problema è che la cosa è andata avanti per tre settimane. La pasta mi veniva sempre scotta».
In condizioni normali, invece, sei una brava cuoca?
«Non cucino spesso, ma me la cavo. Il piatto che mi viene meglio è pasta e patate, che non è per niente semplice: devi metterci il vino, la pancetta, la cipolla. È un po’ come preparare un risotto».
Sempre in quell’occasione, hai scritto che eri tornata a casa dopo 12 ore di lavoro. Cosa stai preparando?
«Sto lavorando a un progetto pilota di una serie comica molto irriverente, nello stile di Boris, che dovrebbe andare in onda su Sky. E poi sto preparando il ritorno in teatro con Notturno di donna con ospiti del grande drammaturgo Annibale Ruccello, che debutterà il 31 ottobre a Napoli. È uno spettacolo che ho portato in scena con molto successo più di dieci anni fa. Sono molto felice di riprenderlo, anche se ho tanta paura».
Ti sei sentita male proprio al termine di uno spettacolo teatrale e questo sarà il tuo ritorno sulle scene. È per questo motivo che hai paura?
Due anni fa, dopo la malattia, ero convinta che non avrei mai più recitato di fronte a un pubblico: l’ansia prima di ogni serata mi ha sempre accompagnata e spesso diventava insopportabile. Ma poi ho deciso di darmi un’altra possibilità: se dovrò smettere, lo farò dopo aver recitato lo spettacolo che più ho nel cuore».
Cosa ti ha lasciato l’esperienza della malattia?
«Lo descrivo con una parola che uso con molta parsimonia: spirituale. Stranamente quest’esperienza, anziché aumentare la mia paura della morte, me l’ha un po’ tolta perché ho capito che è come un soffio che ti può attraversare anche quando meno te lo aspetti. Quindi va accettata così. Anche perché, quando arriva, il mondo poi va avanti lo stesso senza di te».
In questa tua visione della vita così fatalista, la parola spiritualità si accompagna alla fede?
«No, la fede è un dono. E io non ce l’ho: non riesco a comprendere quell’entità che chi crede chiama Dio. Anche se non escludo che possa esserci».
Giunta a questo punto della tua vita, cosa desideri di più?
«Vorrei essere più felice, non avere più pensieri depressivi. Per riuscirci, dovrei convincermi una volta per tutte che il dolore di cui la vita è intrisa è fisiologico. Non puoi farci nulla».
Con Massimo Troisi in Scusate il ritardo
In questi giorni ricordiamo Massimo Troisi perché sono passati
vent’anni dalla sua morte. Sei stata la protagonista del suo secondo
film, Scusate il ritardo. Cosa ti manca di lui?
«L’intelligenza. L’intelligenza vera, quella che si accompagna a una
profonda affettività. Mi piaceva la battaglia quotidiana che faceva
contro i luoghi comuni, che soffocano la libertà di pensare. Diceva di
non essere colto. Ma aveva una sapienza che arrivava da lontano e che
gli consentiva di smitizzare tutto, partendo da sé stesso. Una volta
Pippo Baudo gli chiese come si era preparato per debuttare alla regia.
Lui rispose: “Aggio vist tutti i film di John Wayne alla televisione”».
Girare quel film con lui per te non fu facile, perché proprio durante
le riprese morì l’uomo che tu amavi, il regista Elio Petri...
«Massimo sapeva che era malato, ma mi volle lo stesso. Piangevo tutti i
giorni. Massimo con me fu delizioso. Quando Elio morì stavamo girando
l’ultima scena, quella in cui minaccio di partire e lui trova il
coraggio per implorarmi di non farlo. Allora io tentenno: “Non so, se
devo essere sincera...” E lui: “No, perché? Puoi pure dire una
bugia...”. Il film finisce con questa scena così tenera. Nella realtà
ero così stravolta dal dolore che Massimo riprese il mio volto
praticamente al buio. Dopo gli ho sempre ripetuto di essere molto
dispiaciuta di non essere riuscita a divertirmi lavorando con lui.
Massimo rispondeva che sarebbe sicuramente ricapitato. Non è andata
così».
In quel film c’è una scena in cui Massimo, per timidezza, pur di non
dirti che ti ama, ascolta la radio fingendo di essere colpito dal Napoli
che sta perdendo in casa con il Cesena...
«Sono passati più di trent’anni, eppure quasi ogni giorno c’è qualcuno che mi chiede di ricordarla».
Perché quella scena è così forte?
«Perché Massimo, con la sua leggerezza, in realtà ha descritto con
grande profondità il dramma delle relazioni tra uomini e donne. Noi
quando ci innamoriamo andiamo al settimo cielo. Se poi siamo pure
ricambiate, è il massimo. Gli uomini invece non riescono a esprimere i
loro sentimenti: hanno paura dell’amore, una paura che li imprigiona e
che, almeno nella mia esperienza, alla fine si rivela distruttiva».
Ma, al di là di tutto, ti senti un po’ in pace con te stessa?
«Assolutamente no. Ma è la benzina che mi consente di andare avanti».