Imprenditori, politici e studenti. Sacerdoti e magistrati. Mafiosi. Nelle logge delle quattro “obbedienze” (Grande Oriente d’Italia, Gran Loggia d’Italia, Gran Loggia regolare d’Italia, Serenissima Gran Loggia regolare d’Italia) ci sono proprio tutti. In totale oltre 17 mila iscritti e più di qualche zona d’ombra. Lo certifica la Commissione antimafia. Che, con l’aiuto della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, ha rilevato al loro interno 193 “fratelli” con «evidenze giudiziarie per fatti di mafia». Restringendo l’indagine alle sole Sicilia e Calabria, risulta che ogni due logge ci sarebbe la presenza di un mafioso o un suo complice. Una “criticità” che però non sembra aver destato particolare allarme. Tanto meno in vista delle prossime elezioni.
«Non mi stupisce questo silenzio», commenta Gian Carlo Caselli, che oggi dirige l’Osservatorio della Coldiretti sulle agromafie dopo essere stato procuratore a Palermo e Torino. «In democrazia non dovrebbero esistere associazioni segrete con vincolo di obbedienza. Invece esistono e sono spesso veicolo di incroci torbidi fra mafiosi e altri potenti, con reciproco rafforzamento. Ma guai a chi ne parla più di tanto! C’è un processo di rimozione/riduzione collaudato da tempo e riscontrabile in molti delicati casi. Per esempio la vicenda Sindona e quella Andreotti. Un classico».
Dobbiamo partire da così lontano?
«Sì, perché se non parliamo di quello che è avvenuto, è come se autorizzassimo una certa politica a continuare ad avere, come è stato per il passato, rapporti organici con la mafia e il malaffare. Questo, per la nostra democrazia, è micidiale. Finché non chiariremo come si è formato il consenso nel nostro Paese, in una certa misura e in un certo periodo, diamo spazio alla “criminalità dei potenti”, quella categoria criminologica che contempla i reati delle classi al potere, che sono, tipicamente, la mafia, la corruzione, lo scambio di favori tra gli uni e gli altri».
Un intreccio pericoloso. Eppure le mafie non sembrano essere un tema di questa campagna elettorale.
«Quello che preoccupa maggiormente è che i rapporti tra mafia e politica sono stati e sono tuttora sistematicamente negati o, quantomeno, si tenta di ridurli a qualcosa di localistico, quasi di folclore, che riguarda solo qualche appalto, invece è un problema nazionale che ha condizionato e condiziona la nostra democrazia. Senza voler generalizzare, bisogna però parlarne. È incredibile quello che è accaduto con il processo Andreotti. La Cassazione ha stabilito che, fino agli anni Ottanta, un pezzo importante della nostra politica nazionale, l’uomo più potente del dopoguerra, ha avuto rapporti con la mafia. È stato assolto per prescrizione, ma è stato giudicato colpevole per “aver commesso il fatto”, come dice il dispositivo della sentenza. È accertato – tra l’altro – che ha avuto incontri con Stefano Bontade, l’allora capo di Cosa nostra, prima e dopo l’omicidio dell’onesto Piersanti Mattarella. Un colloquio nel quale si discuteva sull’intenzione dei mafiosi di uccidere l’allora presidente della Regione Sicilia e un altro nel quale chiede spiegazioni sul perché si fosse poi deciso di assassinarlo. Di questo Andreotti non ha mai detto nulla avvalorando, con il silenzio, la connivenza con la mafia. Eppure si dice che è innocente perché è stato assolto. Ma assolto per aver commesso il fatto è un assurdo. Questa rimozione è pericolosissima».
Questo impedisce di sradicare la mafia?
«Contribuisce notevolmente. Se i mafiosi fossero stati soltanto gangster non staremmo ancora a parlarne. Il punto è che sono anche qualcosa d’altro, cioè relazioni esterne. Rapporti torbidi e oscuri con pezzi consistenti del mondo legale, della politica, degli affari, della cultura, delle istituzioni, della società civile, dell’economia… Pezzi che con la mafia fanno affari. A volte ci può essere intimidazione, ma sempre più spesso non c’è neppure bisogno di questo perché bastano a saldare le relazioni esterne gli interessi e i vantaggi comuni. Questa è la spina dorsale del potere mafioso».
Le mafie sono più forti?
«Si sono espanse. E tutte hanno nel loro Dna una incredibile capacità-necessità di adattamento. Siamo alle mafie 2.o/3.0, capaci di sfruttare tutti i vantaggi della globalizzazione. Una volta l’attività unica o prevalente con cui imponevano la presenza sul territorio era il pizzo, oggi acquistano direttamente il negozio o ne diventano soci. La corruzione è il metodo principale di azione. E allargano il loro potere perché dilaga la zona grigia, cioè quell’area che, pur non essendo direttamente criminale, si presta a coperture, complicità, interessi. Era forse meno complicato contrastarli quando i mafiosi operavano in un ambito “militare”, oggi invece sono in doppiopetto, sono i colletti bianchi E, se non sono in doppiopetto, hanno talmente tanti soldi che possono pagarsi, in ambito economico, finanziario e per ogni loro attività, i migliori cervelli».